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L'ORA DEL PASTO. Mazzola, l'eritreo - 3
dalla Redazione | 21/04/2016 | 09:10

Mazzola il velocista, Mazzola l’olimpico, Mazzola il campione si dedicò, così, al suo lavoro di sarto: “Sgobbando, senza pietà, giorno e notte, lavorazioni a mano, precise, premurose, accurate, con i migliori tessuti inglesi e italiani, compresi quelli di Ermenegildo Zegna”.

Intanto il ciclismo, in Eritrea, cresceva. E cresceva con lui. Nei ricordi: “Vita da corridore? Molta. Fatica? Sempre. Cotte? Mai”. Nei racconti: “Le biciclette, ce n’erano anche di bellissime e costose, come le Bianchi e le Legnano. Il cambio, dal Simoplex al Campagnolo. I tubolari, piegati in quattro, dietro la sella, e il mastice, per attaccarli al cerchione. Le borracce, di alluminio, meglio se avvolte in un panno, per mantenerle fresche”. Nella storia: “Cominciai a occuparmi dei ragazzi, perché quel primo Giro dell’Eritrea fu la genesi del ciclismo africano autoctono, un evento sportivo e sociale, e da quel giorno si svegliarono anche gli altri Paesi, dal Sud Africa in su, fino al Marocco, all’Algeria, alla Tunisia, all’Egitto”. Nel progresso: “La mountain bike, fui io a organizzare il primo campionato scolastico, era il 1996-97”.

Finché si sentì l’urgenza di un nuovo Giro dell’Eritrea, a 10 anni dalla fine della lotta per l’indipendenza e a otto dalla sua dichiarazione. A dirigerlo, lui, Mazzola: “Cinque tappe, 70-80 corridori, di squadre locali, e gli isolati (secondo altre fonti, le tappe furono 10 e i corridori 97, tutti eritrei tranne uno, ndr). Ci fu grande spirito di collaborazione: ogni regione si assumeva la responsabilità di dare alloggio e assistenza ai propri corridori. Io feci il direttore di corsa, sull’ammiraglia, e lo avrei fatto per altri quattro o cinque anni: davanti e dietro il gruppo, non solo a controllare, ma anche a spiegare e a correggere e a incoraggiare”. Da allora il ciclismo si è allargato, moltiplicato, ingigantito, fino a diventare lo sport nazionalpopolare d’ Eritrea. Più del calcio. Una vocazione, una ispirazione, quasi una venerazione.

Eritreo è Daniel Teklehaimanot, il primo africano a indossare la maglia a pois di leader nella classifica della montagna al Tour de France (è successo nel 2015). Eritreo è Mekseb Debesay, professionista prima nella squadra tedesca Bike Aid e adesso nella Dimension Data. Eritreo è Natnael Behrane, campione africano nel 2011 e nel 2012, vincitore di una tappa al Giro di Turchia 2013 e – primo africano – della Tropicale Amissa Bongo, in Gabon. Eritreo è Merhawi “meraviglia” Kudus, 22 anni, già un secondo posto al Giro della Malesia e un luminoso futuro previsto da tutti gli osservatori, a cominciare da quelli del Centro olimpico internazionale che lo hanno testato in raduni e competizioni. Eritreo è Amanuel Ghebregziabher, 21 anni, terzo al Palio del Recioto e fra i protagonisti al Giro dell’Appennino nel 2016, anche lui nella Dimension Data. “Tutti miei discepoli”, sostiene Mazzola. E se non discepoli, eredi.

Oggi il Giro dell’Eritrea vive la terza delle sue cinque tappe. Mazzola è in Italia, a Pontedera, tra gli amici e con il fratello Francesco, base al bar-ristorante Rugantino. Racconta della moglie Maria Teresa Bertelini, “meticcia” come lui, dei tre figli (Olindo in Brasile, Leandro negli Stati Uniti, Fidelmo a Londra) e dei sei nipoti, delle sue quattro biciclette (“Tre da corsa e una da passeggio”), di Marco Pantani (“Lo hanno distrutto”) e di Vincenzo Nibali (“E’ forte, è serio, mi piace”), del suo sogno, rimasto sogno, di correre il Giro d’Italia (“Non è come adesso, non avevamo i mezzi, non c’era la possibilità”), insomma del ciclismo. Mazzola non fa sconti: “Preferivo dormire con la bici che non con mia moglie. Lei lo sapeva e si arrabbiava. Ma per me il ciclismo è tutto”.

Marco Pastonesi


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