Il 5 giugno 1988. Una domenica. Il Giro d’Italia propone la Chiesa Valmalenco-Bormio, quattordicesima tappa, 120 chilometri arrampicando l’Aprica e scalando il Gavia. Il meteo non promette nulla di buono, poi arriva il peggio. Perché ai piedi del Gavia il tempo tiene e il cielo trattiene, ma a metà del Gavia quel purgatorio diventa inferno. Un inferno di ghiaccio e di cristalli. Come dimenticare?
Maurizio Spreafico, di Lecco, ha 23 anni e corre per la Fanini-Seven Up. Gregario di Stefano Tomasini, scalatore, di Pierino Gavazzi e Alessio Di Basco, velocisti. Quel giorno parte con una maglia a maniche corte, poi, strada facendo, indossa un impermeabilino leggero e trasparente. Roba di mezza estate, ma quello, nonostante il calendario, è un giorno di pieno inverno. “Più si sale, più nevica”. In salita, si sa, si sopravvive. “E lo giuro: la salita l’ho fatta tutta pedalando”. Al Rifugio Bonetta, oltre i 2600 metri di quota, la scena è da Grande Guerra. “In cima al passo sono paralizzato dal freddo, per scaldarmi bevo un bicchierino di Vov, poi risalgo sulla bici e affronto la discesa”.
Ma la discesa è impossibile: la neve è così fitta che non si vede neanche la strada. Spreafico scende dalla bici e prosegue a piedi, la bici a fianco, cercando di mantenersi dentro la striscia di asfalto ed evitare i precipizi. Trecento metri, forse. Poi cede. E sale sul pullmino della squadra. “Dentro c’è, che barbella per il gelo, Johan Van der Velde”. L’olandese, che pure appartiene a un’altra squadra, la Gis Gelati, è giunto per primo sul Gavia, ma assiderato, poi si è perso. “Ed è quasi irriconoscibile se non fosse per la maglia ciclamino, quella di primo nella classifica a punti”. Nel pullmino i corridori si stringono per scaldarsi, incoraggiarsi, sentirsi ancora vivi. “Finché il pullmino accosta e si ferma, noi scendiamo, risaliamo sulle bici e arriviamo al traguardo”. Più morti che vivi. Van der Velde centoventisettesimo, a 46’49” da un altro olandese, Erik Breukink, e Spreafico centoventinovesimo, 21” più tardi. Dietro di lui altri 10 corridori. Quattro i ritirati, fra cui Cipollini, ma Cesare, il fratello maggiore di Mario.
Spreafico non può dimenticare: “Il nostro albergo, per fortuna, è a Bormio. Vasca da bagno, acqua calda, il corpo trafitto dagli spilli dei geloni. Due ore impietrito per il freddo, il dolore, la paura. Poi, finalmente, comincio a riprendermi”. Intanto, pare che tutti cerchino Vincenzo Torriani, il patron della Corsa Rosa. “Lo cerca anche mio padre Giuseppe, disperato, venuto a vedere la tappa. Ma Torriani, come per incanto, è sparito”.
Forse, anche inconsapevolmente, è proprio in quel giorno da tregenda che a Spreafico brilla un’idea: quella che – battezzata VeloPlus, sede a Bevera di Sirtori – lo avrebbe restituito al ciclismo. Prima negozio di bici, poi azienda specializzata in abbigliamento tecnico e scientifico. Per non gelare con il freddo, per non sciogliersi al caldo, per non inzupparsi con la pioggia, per non patire un altro Gavia.
Adesso, nel gruppo, a pedalare c’è un altro Spreafico: Matteo, 23 anni, primogenito di Maurizio, dal Team Idea al Kolss-BDC Team (di cui la VeloPlus è sponsor tecnico), un italiano in una squadra ucraina (e pensare che fino a poco fa erano gli ucraini a stare nelle squadre italiane), dorsale 238 alla Settimana internazionale Coppi e Bartali (ieri, nella tappa di Sogliano con cinque gran premi della montagna, cinquantasettesimo su 181 classificati più sette non arrivati). “Da piccolo veniva a vedermi correre fra gli amatori – racconta papà Maurizio – ma senza mostrare particolare interesse. Finché a 15 anni ha partecipato a una gara in mountain bike e lì è scoccata la scintilla”. Da junior Matteo ha dimostrato qualità: alto e magro, scalatore. “E’ ancora tutto da scoprire. Ma io, come papà, ci credo sempre”.
Marco Pastonesi