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DIECI FACCE DA GIRO
di Angelo Costa | 03/10/2020 | 08:05

Ventuno tappe, con 65 chilometri distribuiti in tre cronometro e sette arrivi in quota. E’ un Giro d’Italia vero, con tutte le sue qualità migliori, anche se non si direbbe: è anomala la collocazione a ottobre, sono soprattutto inconsuete le precauzioni e le attenzioni dovute al Covid che accompagnano la corsa. Basti pensare all’assenza del pubblico, alle partenze, agli arrivi e anche sulle salite: senza tifosi non è sport, si diceva a inizio quarantena, ma è anche vero che al momento limitare gli spettatori è l’unica strada per fare sport.

Meno ricco del Tour come qualità, rispetto ai francesi il Giro deve reggere la concorrenza delle classiche del Nord, che su molte grandi firme hanno maggior fascino. Poi dovrà sostenere il rischio del clima, che non è legato a pioggia e neve, presenti pure in maggio, ma alle temperature: l’autunno abbassa il termometro e questo, in caso di maltempo, potrebbe costringere ad evitare l’alta quota. A fronte di tante incognite, c’è la sicurezza di uno spettacolo degno della tradizione, a tutti i livelli: per la classifica, per gli sprint, persino per le crono, dove sventoliamo un fresco iridato come Ganna. In più c’è la ciliegina Sagan, che a trent’anni ha scelto finalmente di concedersi all’Italia. Ecco le dieci facce che aspirano ad entrare nell’albo d’oro.

Vincenzo Nibali. Vince perché quando punta a un obiettivo difficilmente sbaglia, perché le ultime sei volte che ha corso il Giro non è mai sceso dal podio, perché un anno fa l’ha un po’ buttato via e ha voglia di rifarsi. Non vince perché a quasi 36 anni una stagione così frenetica si sente.

Geraint Thomas. Vince perché la cronometro gioca in suo favore, perché è uno che va fortissimo anche in salita, perché ha un conto da saldare dopo esser caduto tre anni fa per colpa di una moto della polizia. Non vince perché trova sempre una giornata sbagliata in cui rimetterci parecchio.  

Jakob Fuglsang. Vince perché dopo esser diventato uomo da classiche dure vuol puntare ai grandi giri, perché ha un percorso dove può far bene, perché invecchiando è di quelli che migliora. Non vince perché in una corsa a tappe non è mai andato sul podio né ci è andato vicino.  

Simon Yates. Vince perché restare 13 giorni in rosa due anni fa gli è servito, perchè se non vai forte in salita non vinci una Vuelta, perché ha una squadra intera al suo servizio. Non vince perché per difendersi a cronometro rischia di bruciare le energie che gli servono in montagna.  

Steven Kruijswijk. Vince perché è uno che nei grandi giri è sempre fra i primi, perché un Giro l’ha già buttato via quattro anni fa schiantandosi nella neve, perché si difende bene su tutti i terreni. Non vince perché gli manca sempre quel centesimo per arrivare all’euro.  

Miguel Angel Lopez. Vince perchè corre con la leggerezza di chi non doveva esserci, perché in sei grandi giri disputati non è mai uscito dai primi otto, perché al Tour è andato forte senza consumarsi. Non vince perché il suo compagno Vlasov, più fresco, è la vera alternativa a Fuglsang.

Rafal Majka. Vince perché il Giro è la corsa a tappe con cui ha più feeling, perché ha abbastanza salite per provarci, perché chi è sempre davanti prima o poi una stagione giusta la indovina. Non vince perché un ottimo piazzato difficilmente alla sua età si trasforma in campione.

Ilnur Zakarin. Vince perché non gli resta tanto tempo per farlo, perché in un Giro con tanti arrivi in alta quota può dire la sua, perché ha imparato a non accontentarsi soltanto dei successi di tappa. Non vince perché dopo la salita spesso c’è la discesa e lì sono dolori.

Wilco Kelderman. Vince perché dopo la ripartenza è andato migliorando, perché finalmente in squadra può correre da leader, perché a 29 anni le promesse vanno mantenute. Non vince perché ne ha troppi davanti per trovare strada libera in classifica.

Joao Almeida. Vince perché è uomo di talento, perché ha la fortuna dei debuttanti, perché con Evenepoel in carrozzeria ha l’occasione di dimostrare il suo valore nelle corse a tappe. Non vince perché un conto è fare bene in una gara di cinque giorni, un altro è restare al top per tre settimane. 

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