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L'ORA DEL PASTO. IL LADRO DI BICICLETTE
dalla Redazione | 23/11/2018 | 07:51

La prima fu un fiasco tra i fischi. Era il 24 novembre 1948. E tra il pubblico del Metropolitan, l’ex cinema teatro Americano, platea e due gallerie, 1600 posti a sedere, in via del Corso, a Roma, ci fu chi reclamava la restituzione dei soldi del biglietto. Ma invano. Settant’anni dopo, “Ladri di biciclette” è considerato fra i capolavori del cinema, l’emblema del Neorealismo, lo zenith di Vittorio De Sica.

Roma. Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) trova impiego come attacchino. Ma per lavorare, deve avere una bici. E la sua è impegnata al Monte di Pietà. La moglie (Lianella Carell), per riscattarla, impegna le lenzuola. Il primo giorno di lavoro, mentre Antonio sta incollando al muro il manifesto del film “Gilda” con Rita Hayworth, un ladro gli ruba la bici. E qui comincia l’odissea di Antonio e del figlio Bruno (Enzo Staiola), fra commissariati e mercati, compagni di partito e colleghi netturbini, dame di carità e una santona veggente, ma sempre invano. Finché fuori dallo stadio Flaminio, Antonio nota una bici incustodita e, disperato, la ruba. Inseguito e catturato, è salvato dal linciaggio solo grazie alle lacrime del figlio. E così padre e figlio s’incamminano, mano nella mano, al tramonto, verso casa.

Staiola, 79 anni, romano della Garbatella, ricorda: “Uscivo da scuola e tornavo a casa, in via Capo d’Africa, dalle parti del Colosseo, a piedi, quando mi accorsi di essere seguito. Era De Sica. Il giorno dopo una troupe cinematografica faceva provini proprio fuori dal mio portone di casa. De Sica mi guardò e disse: ‘E’ lui’. E così cominciai. Eravamo in due per un posto, quello del figlio del protagonista: Enzo Cerusico e io. Finché fu deciso: a Cerusico una bici, a me il film. Ci rimasi male. Volevo anch’io la bici. Ma finito il film, fu regalata una bici anche a me”.

Non si accorse, Staiola, che stava entrando nella storia: “La sera De Sica mi mostrava che cosa avrei dovuto fare in una scena, la mattina successiva si girava. Spesso era buona la prima, al massimo si ripeteva una volta, così si risparmiava pellicola, ce n’era poca, altrimenti si dovevano usare gli spezzoni. Il set era la strada, e la strada rispecchiava la povertà di quei tempi. Non c’era niente, o quasi. Però c’era la solidarietà: le porte delle case erano aperte, invece adesso ognuno sta, chiuso, a casa sua. La scena del furto della bici al Flaminio era vera. Quel giorno si giocava Roma-Modena, la produzione era in contatto con il radiocronista Nicolò Carosio, e quando lui disse che la partita era finita e la gente sfollava, si cominciò a girare. C’era bisogno di gente, tanta gente, e con gli spettatori che uscivano dallo stadio si risparmiava sulle comparse. Ma quando il protagonista rubò la bici e venne inseguito e preso, chi usciva dallo stadio non sapeva che era tutto finto, credeva che fosse tutto vero, e c’era chi lo strattonava, chi lo spingeva, chi lo picchiava”.

Staiola, che poi ha lavorato come impiegato al catasto, ripensa a De Sica (“Era affettuoso come un padre, ma severo, com’è giusto, sul set. Lo chiamavo Vittorio, e lui si arrabbiava, preferiva commendatore. E si arrabbiava anche quando, giocando a carte, perdeva”), ripensa a quando De Sica raccontava ai giornalisti di come lo avesse fatto piangere dandogli del “ciccarolo” (“Non era vero - l’espediente per lacrimare era soffiare il fumo di sigaretta negli occhi -, ma lui mi disse di non preoccuparmi, ‘è tutto cinema’”), ripensa a quando gli chiedevano un autografo (“Io mi vergognavo”), ripensa agli altri 18 film cui ha partecipato (“Anche ‘La contessa scalza’, con Ava Gardner e Humphrey Bogart”). Ma come “Ladri di biciclette” non ce n’è.

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