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L'ORA DEL PASTO. FRANCO E GIOGIÒ
dalla Redazione | 24/05/2018 | 07:15

Il suo compito: rimanere il più vicino possibile a Franco Bitossi. Gli riusciva meglio in camera che sulla strada. E, sulla strada, gli riusciva meglio quando Bitossi si fermava, vittima di un attacco di cuore, che non quando Bitossi andava, perché Bitossi andava forte se non fortissimo. Giuseppe Grassi stava a Bitossi – con le dovute proporzioni - come Ettore Milano a Fausto Coppi e come Giovannino Corrieri a Gino Bartali. Era il suo gregario, il suo compagno di stanza, il suo angelo custode. Anche 50 anni fa, al Giro del 1968.

Bitossi nato a Carmignano, Grassi a Seano: “Di Seano erano i due fratelli Maggini, Sergio e Luciano. Due autorità, due personaggi, due eroi. E due maestri. Furono loro due a consegnarmi la prima bicicletta. Avevo 15 anni. Da esordiente feci tre corse: la prima arrivai secondo, la seconda quinto, la terza primo. Poi passai allievo: il primo anno cinque vittorie, il secondo 17. Vincevo dovunque, mi era addirittura facile, mi ero quasi illuso di poter diventare un campione. Poi passai dilettante, a Empoli, e lì si vinse meno: il primo anno una vittoria, il secondo – ero anche militare – due, il terzo sei. E poi passai professionista, nella Filotex, che era di Prato, ed era come la nazionale dei corridori toscani. Il primo anno vinsi due corse, a Mirandola e una prova del Trofeo Cougnet, poi mi chiesero di fare il gregario di Bitossi. E andò bene così”.

Bitossi abitava a 10 chilometri di distanza: “Tutti i giorni ad allenarsi insieme. Si divenne amici, si cenava insieme, anche con le mogli. Franco mi chiamava ‘Giogiò’, e non ho mai capito perché. Aiutarlo era bello, ma difficile: quando lui scattava, io mi staccavo. Però feci sei Giri d’Italia e mai mi ritirai. Un terzo di tappa nel 1970, ancora a Mirandola, primo Marino Basso, due quarti nel 1968, ad Alessandria, primo lo spagnolo Momene, e a Marina Romea, primo Gigi Sgarbozza. E mai più vinto, ma fa niente. Quanto al cuore matto, non era una scusa: Bitossi ce l’aveva davvero. Gli cominciava a battere all’impazzata, e non si capiva perché. Io mi fermavo sempre con lui, anche se mi ordinavano di ripartire”.

Quello di Giogiò era un ciclismo di ganci (“I capitani si attaccavano alle cosce”), di assalti (“Ai bar per acqua, birra e bibite, e alle fontane per rinfrescarsi, pulirsi, lavarsi e riempire le borracce”), di apparizioni (“Su certe salite vedevo la Madonna”), di preghiere (“Da credente, e Bitossi era più credente di me”), di massaggi (“Prima i capitani, a lungo, poi i gregari, di fretta”), di crisi (“Cotte mai, piedi a terra spesso”), di fughe (“Poche”) e di scappatelle (“Pochissime, erano proibite, dicevano che ci avrebbero tolto le forze, e io già non ne avevo molte”). E poi: “Alla Filotex avevamo un frate che diceva messa, sia agli operai sia ai corridori il venerdì prima delle corse”. E poi: “L’amicizia, gli inviti, l’ospitalità. Quello era il bello del nostro ciclismo. E l’amicizia, l’ospitalità e gli inviti continuano ancora oggi. E una volta l’anno ci ritroviamo alla Castellina”.

Grassi smise di correre presto, a 29 anni: “Si guadagnava poco. Allora aprii un maglificio. Andava bene. Poi la concorrenza dei cinesi. E mi toccò di chiudere”.
In una cosa Grassi faceva il capitano e Bitossi il gregario: “A caccia di cinghiali. Io sono sempre stato più cacciatore di lui. Anche adesso. E per il ritrovo alla Castellina, porto due cinghiali, per la carne e per il sugo”.

Marco Pastonesi

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