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L'ORA DEL PASTO. IN BICI CON ALÌ
dalla Redazione | 10/09/2017 | 08:05

Era una Schwinn. Bianca e rossa. L’aveva parcheggiata fuori dal Columbia Auditorium, un edificio che ospitava spettacoli e adesso un’università, luogo di ritrovo della comunità afroamericana nei giorni delle fiere. Quando andò a riprendersela, si accorse che gli era stata rubata. Costava 70 dollari, quella bicicletta, ma per lui ne valeva infinitamente di più: era la sua libertà, e la libertà non ha prezzo.

Era un giorno di ottobre, caldo, del 1954, ed era a Louisville, Kentucky, Stati Uniti, ma non uniti fino in fondo, dove si scontrano ricchezza e povertà, padronato e schiavitù, bianco e nero. Il ragazzino – nero, alto, smilzo, e tremendamente deciso – andò in cerca del ladro, e di una traccia, se non della bici, volatilizzata. Scese nel seminterrato del Columbia Auditorium e s’imbatté in Joe Martin, bianco, poliziotto, nonché insegnante di boxe, soprannominato ironicamente “The Sergeant” perché non aveva mai trovato il coraggio di sostenere l’esame per diventare sergente. “Lei me lo deve trovare! Deve trovare il ladro della mia bicicletta! – urlò -. Altrimenti lo troverò io e gli darò un sacco di legnate!”. “Ma sei sicuro di saper tirare tutte queste legnate? Hai mai tirato di boxe?”.

Comincia così la storia, la leggenda, il mito di un campione di sport e religione, di boxe e arte, di umanità, che allora era il dodicenne Cassius Clay. E comincia così anche “Muhammad Ali” di Federico Buffa e Elena Catozzi (Rizzoli, 362 pagine, 19 euro), che ripercorre, come se fossero i 21 round di un antico match, il viaggio planetario di un ragazzino ispirato (“A otto-dieci anni uscivo di casa alle due del mattino e guardavo il cielo, in attesa che un angelo o Dio mi rivelassero cosa dovevo fare”), di un pugile dotato (“Vola come una farfalla, pungi come un’ape”, gli raccomandava l’assistente allenatore Drew “Bundini” Brown), di un sacerdote laico (“Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”), ma anche di un provocatore nato (“Sei più intelligente di quello che sembri in fotografia”, disse a John Lennon) e di un battutista collaudato (“Ho visto che a bordo ring c’era Elizabeth Taylor, la più bella Cleopatra di sempre, mi sono distratto ed è stato bravo lui a prendermi”).

Non dev’essere facile scrivere di Ali quando è già stato fatto da Norman Mailer e David Remnick, quando lo ha fatto lui stesso in biografie più o meno autorizzate, quando è stato fatto in tv e al cinema, in musica e in arte, soprattutto quando lo ha già fatto la storia. Buffa e Catozzi hanno raccolto e poi selezionato, puntando sui momenti decisivi, sugli incontri fondamentali, sugli appuntamenti imperdibili. Il loro modo di narrare è quello di una grande serie televisiva americana, perché guidano, conducono, accompagnano, rimandano, con il senso dello spettacolo e la giusta enfasi. Per il furto della Schwinn il riferimento è al “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica, per l’oro alle Olimpiadi di Roma il ricordo va alla tuta di Wilma Rudolph, per l’ultimo match contro Larry Holmes il commento è di Mick Jagger (“Sai a che cosa stiamo assistendo? Alla fine della nostra giovinezza”).

Bello, Muhammad Ali. Bello, lui. Bello anche questo libro. Nello scegliere le citazioni, come per il primo dei tre incontri contro Joe Frazier, quindicesima ripresa, gancio sinistro di Frazier e Ali che va al tappeto: “Sono andato giù con quel sinistro – racconterà “Smokey” Joe -, giù fino in Alabama. E quella canaglia invece si rialzò”. Nel collezionare i fatti: “Passava il tempo a cercare le incongruenze dei Vangeli di Marco e Matteo. In particolare adorava il Natale. Per anni passò la vigilia chiamando numeri a caso dell’elenco telefonico di Manhattan, augurando di tutto a tutti”. Nello specchiare la boxe e i suoi protagonisti: “All’inizio – ricordava Jose Martin, il poliziotto-insegnante di boxe – non distingueva un calcio in culo da un gancio sinistro”. Nel tirare le somme: “Il mondo che Ali ha dominato era un mondo in pellicola, non in digitale. E’ stato la fotogenicità assoluta, un volto di cui non si aveva mai abbastanza”.

Marco Pastonesi

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