Ma ve lo immaginate un corridore che, siccome non lo facevano correre abbastanza secondo i suoi desideri, prendeva a gavettoni di acqua il suo direttore sportivo?
Ma ve lo immaginate un corridore che, siccome era convinto che la vita fosse soltanto questa aldiqua e non aldilà, di donne non ne lasciò mai perdere una?
Ma ve lo immaginate un corridore che, siccome era arrivato insieme al suo capitano Eddy Merckx, la sera a cena il general manager insorse tuonando: “Qui di capitano ce n’è uno solo, da domani tutti pompa e palmer”.
Tino Conti – il privilegio del nome e cognome, sempre, come per Ercole Baldini e Gastone Nencini – aveva il dono di accendere le corse, fin dall’esordio. Nibbiono, provincia di Lecco-Como e aria di Brianza, era divisa fra lui e Ernesto Donghi. Poi Tino, abbreviativo del più impegnativo Costantino, a sua volta diminutivo del più partecipativo Costante, prese il volo: a 22 anni, conquistò due ori ai Giochi del Mediterraneo (in linea e nella cronosquadre), una tappa e il secondo posto finale al Tour de l’Avenir. Era il 1967. Sembrava predestinato. “Passai professionista nella Faema convinto di poter giocare le mie carte. Era il 1969: general manager Giacotto, direttore sportivo Vigna, capitano Merckx. Vinsi il Giro delle Marche, prova valida per il Trofeo Cougnet. Poi il Giro d’Italia. In classifica ero sesto o settimo quando, alla decima tappa, la Potenza-Campitello Matese, 254 chilometri, otto ore in sella, attacchi e contrattacchi, a un certo punto mi trovo nel gruppo davanti a quello di Merckx, che poi rientrò. Fu lì che la sera Giacotto tuonò: ‘Qui di capitano ce n’è uno solo, da domani tutti pompa e palmer’. Non mi restò che uscire di classifica”. E poi di squadra.
Un’odissea, quella di Tino Conti. Faema nel 1969, Scic nel 1970 e 1971, Zonca nel 1973 e 1974, Furzi nel 1975, Magniflex nel 1976, ancora Zonca nel 1977, Gis nel 1978. Fu anche un’iliade, quella di Tino Conti. Tra compagni e avversari, tra direttori sportivi e commissari tecnici, Adorni come Agamennone, Merckx come Achille, Gimondi come Ettore, Bitossi come Aiace Telamonio, Moser come Euripilo.
Eppure: una dozzina di vittorie, fra cui Tre Valli Varesine, Giro di Toscana e Giro della provincia di Reggio Calabria e due volte il Gran premio Industria e Commercio di Prato. Eppure: un quarto e un ottavo al Giro d’Italia, un quarto alla Sanremo e un terzo al Lombardia, e soprattutto una medaglia di bronzo ai Mondiali (nel 1976: e la foto-ricordo campa sul suo profilo Facebook).
Tino Conti che da piccolo “bevevo l’acqua dal tubo del giardino, mangiava pane e olio, pane e burro, pane e zucchero, andava a scuola e poi fuori a giocare fino al tramonto.
Tino Conti che “le tattiche servivano a poco”, che “l’importante è non pensarci”, che “l’allenamento è fondamentale, la sera devi sentirti stanco ma essere soddisfatto”, che “fare il professionista non è mica una cosa per tutti”.
Tino Conti che “Merckx era una Ferrari, noi una Cinquecento”, che “Merckx aveva una capacità di recupero spaventosa, gli bastava il tempo di asciugarsi e sarebbe potuto ripartire, noi il giorno dopo eravamo ancora stanchi”, che “eravamo in Spagna, la corsa era il pomeriggio, lui primo e io quarto, ma la mattina ci aveva costretto a fare cento chilometri, e lo avevamo maledetto”.
Tino Conti che “il Giro è più duro del Tour, ma la gente crede il contrario”. Tino Conti che ha regalato la maglia di leader della montagna del Giro di Svizzera 1974 e il trofeo conquistato al Giro di Toscana 1975 al Museo del ciclismo di Roeselare. Tino Conti che la conta giusta.
Marco Pastonesi