Era attesa pioggia, su Bari, venerdì 18 maggio 1990, e invece c’era il sole. Erano attesi gli specialisti, per la crono valida come prima tappa di quel Giro d’Italia, e invece c’era Gianni Bugno. Che non era specialista di niente perché era specialista di tutto.
Tredici chilometri di prologo individuale nel capoluogo pugliese, volati in 15’19”, a quasi 51 di media, 3 secondi meglio del francese Marie e 9 del polacco Piasecki, due degli specialisti più attesi.
Il primo passo, raccontato quasi con pudore ai microfoni di Adriano de Zan - «Non pensavo di vincere la cronometro, volevo prendere il minor possibile distacco possibile dagli avversari diretti e per questo ho dato il massimo. Per me questa maglia rosa significa aver già raggiunto un grande obiettivo» -, il primo passo di un’impresa storica.
Perché quella maglia rosa conquistata a Bari Gianni l’ha indossata, protetta, custodita e ingigantita giorno dopo giorno fino al trionfo finale di Milano. Diciotto tappe, 3450 chilometri in totale, sempre primo, sempre più primo, con due altri successi di tappa - a Vallombrosa e al Sacro Monte di Varese, ancora a cronometro stavolta sotto un diluvio memorabile - in una corsa affrontata con una maturità nuova, forse figlia dell’impresa di Sanremo.
A Milano, gli occhi azzurri di Bugno incorniciati da una maglia rosa intenso guarderanno il francese Mottet secondo a sei minuti e mezzo e Marco Giovannetti, già vincitore della Vuelta, terzo a oltre 9 minuti. Un abisso.
Non è stata, quella di Bugno, solo un’impresa da catalogare, ma - basta andare a riguardare le immagini e a rileggersi le cronache dell’epoca - da tramandare: perché la sua cavalcata rosa di trent’anni fa ebbe il merito di riaccendere la passione dell’Italia per il ciclismo in maniera focosa, feroce, entusiasta. Mitico Gianni...