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CAPITANI CORAGGIOSI. CLAUDIO MARRA: «UNA VITA IN VIAGGIO E ORA VOGLIO PORTARE FSA NELLA TOP 5 MONDIALE»
di Pier Augusto Stagi | 02/05/2023 | 08:20

La meta è partire. L’ermetismo di Ungaretti è di un’efficacia fulminante e racchiude anche il sentimento che accompagna ancora oggi Claudio Marra, vi­cepresidente mondiale di FSA & Vision, che del viaggio ha fatto e fa la sua principale vocazione. Senza un viaggio non sarebbe nemmeno ve­nuto al mondo, lui che ha trovato i natali a Metz il 6 gennaio del 1963 in terra di Francia, dove papà Ar­turo e mamma Rosa si erano recati in cerca di fortuna.

Anni duri e di fatica. Duri come la pietra e papà Arturo l’ha compreso ben presto sulla sua pelle, sulle sue mani, nei polmoni in­tossicati dalla polvere del­la miniera. In quel paese del Nord-Est della Francia, bagnato dal fiume Seille e ad una cinquantina di chilometri dal Lussemburgo, Claudio ha vissuto i suoi primi anni di vita. Ma fin da bambino, lui figlio di emigranti e fratello minore di Luigi, Francesca, Angela e Antonio, ha sempre nutrito il piacere del viaggio, come un Sal Paradis qualsiasi, l’alter ego di Kerouac nel celeberrimo “On the road”.

Scrisse Lao Tzu, filosofo cinese: “Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo”.

«Io di passi ne ho fatti tanti, consapevole di farli. Desideroso di mettermi in viaggio e in gioco. In verità i primi a mettersi in viaggio sono stati i miei genitori che all’inizio degli Anni Cin­quanta sono emigrati in Francia, dove hanno raggiunto dei nostri parenti che avevano già fatto questo tipo di scelta. Erano partiti nell’immediato dopoguerra da un’Italia molto sofferente e devastata dalla guerra. Si mangiava povertà dalla sera alla mattina e tanti nostri con­nazionali erano stati costretti a reinventarsi una vita oltre confine. Poi all’inizio degli anni Settanta è arrivata la crisi dell’acciaio, hanno chiuso le mi­niere e in tantissimi siamo tornati in Italia. La mia famiglia a Cavenago, dove mio zio Angelo abitava (papà e mamma erano originari della Ba­si­li­cata, Potenza, ndr). Io avevo 7 anni. Faccio le mie scuole a Ca­venago e a 14 anni sento il richiamo del viaggio. Il mio professore di lettere, il professor Arbuati, mi dice: “Claudio, se ami viaggiare e conoscere il mondo, fai Ra­gio­ne­ria. Ti consentirà di andare a fare eventualmente un lavoro commerciale e così potrai ad andare in giro per il mondo. Ascolto il consiglio e lo metto in pratica: mi iscrivo al Mosé Bianchi di Monza, ma nel ’78, a soli 58 anni un tumore allo stomaco porta via mio pa­pà. La mamma mi prende in disparte e mi dice: “Caro Claudio, sia­mo in gravi difficoltà economiche e non posso permettermi di mandarti a scuola, c’è bisogno anche di te: devi andare a lavorare”. Fortunatamente Alessandro Ma­da­schi, il fidanzato di mia sorella Angela, ex corridore ciclista alla Lema, mi tro­va immediatamente un impiego: “Io la­voro alla Rossin - mi dice - se ti interessa provo a chiedere a Mario (Rossin, ndr) se c’è bisogno di un ragazzo di bottega che possa fare da garzone”. Alessandro ne parla e Mario mi prende. Dopo circa tre anni, sempre mio cognato Ales­sandro, torna da me per dirmi: “Claudio, c’è Ernesto Colnago che ha tanto lavoro e mi chiede se an­diamo a Cambiago a fare telai per lui. È l’81 e mi trovo a lavorare come terzista in un’officina che fa esclusivamente telai per Ernesto. Nell’83 arriva una brutta crisi e quel lavoro svanisce come neve al sole. Ho 18 anni e mi ritrovo senza niente. Spero che riesca tenermi ugualmente l’Ernesto, ma non è possibile. La fortuna vuole che in Rossin stiano cercando operai, mi sono recato da lui e Mario, vista la mia esperienza nella costruzione dei telai, mi riprende al volo. Sono sempre stato tipo volenteroso, intraprendente e volitivo. Il la­voro non mi ha mai spaventato, anzi, e alla fine dell’87, grazie al mio impegno, divento responsabile della produzione della Rossin».

Il diploma quindi resta un dolce ricordo…
«No, nel frattempo e per cinque anni frequento la Mosé Bianchi: ragioneria alle serali. Di giorno lavoravo, alla sera andavo a scuola e ho portato a casa il tanto agognato diploma. Il sogno, pe­rò, è sempre uno e uno solo: viaggiare».

Nell’87 è però responsabile della produzione Rossin e il mondo è tutto circoscritto lì: a Cavenago.
«D’accordo, ma è altrettanto vero che in questo ruolo mi trovo ad essere un referente tecnico privilegiato dell’ingegner Alvaro Dellera della Co­lum­bus. Quando c’era un tubo nuovo da testare e valutare lui era sempre da me a chiedermi un parere. Un giorno mi faccio coraggio e gli chiedo: ingegnere, visto che lei si fida ciecamente del sottoscritto, perché non mi assume? L’in­ge­gnere non si fa pregare e ne parla immediatamente con Antonio Colom­bo e la dottoressa Mariangela Colombo (cugina di Antonio, ndr) così decidono di assumermi. È il ’91, ma c’è un però…».

Quale?
«Mario Rossin e Domenico Garbelli non ne vogliono sentir parlare di dimissioni. Non vogliono che io lasci lì tutti in braghe di tela, ma soprattutto tra Colombo e Garbelli c’è grande amicizia e affinità. I due erano in pratica una sola cosa e con l’indimenticato Mauri­zio Castelli (quello delle maglie, ndr) costituiscono in quel periodo un vero e proprio “triumvirato amicale”. I tre sono inseparabili e il sottoscritto è mo­tivo di discussione. Colombo che mi vuole e Garbelli che non mi vuole la­sciar andar via. Vincerà Antonio Co­lombo, che in pratica gli dice: “Dome­nico, se fai tanta resistenza è perché Claudio è bravo. Quindi, me lo prendo!”. In verità poi ci metto del mio, nel senso che più di una mano ci metto un dito, che mi rompo. Convalescenza forzata, ma questo non mi impedisce di passare in Columbus nel gennaio del 1992. Destinazione: ufficio tecnico».

Lei intanto scalpita.
«Assolutamente sì. Nonostante nell’86 mi fossi sposato con Betty (Truglio, da sempre responsabile contabile della Fsa, ndr) conosciuta a Cavenago (han­no due figli: Giorgio di 26 anni e Laura di 29. Giorgio lavora nel marketing in Fsa e Laura sempre in marketing, ma in Moncler, ndr), mi dedico anima e cor­po al lavoro. Rubo il mestiere a tut­ti, sono motivatissimo come pochi e non esito a stare più ore possibile in azienda. Stando lì qualche ora di più, mi trovo a rispondere al telefono. Sono soprattutto telefonate che arrivano dall’estero e io, sapendo parlare piuttosto bene il francese imparato da bimbetto, comincio a diventare un punto di riferimento per tutti. Anche di giorno i clien­ti cominciano a chiamare chiedendo di me. A quel punto mi faccio ancora una volta coraggio e chiedo ad An­tonio di poter affiancare i commerciali e lui accetta con entusiasmo. Felice lui per i risultati, felice io che comincio ad andare in giro. Affianco i commerciali sia in Italia che in Francia, dove all’epoca fatturavamo 600 milioni di lire e, nel giro di tre anni, balziamo a 3 miliardi e mezzo. È il 1995 e divento Area Manager Italia e Sud Europa. Cambia la mia vita e comincia a cambiare anche il mondo: così decido di studiare anche l’inglese. Nel 1997 sono Direttore Com­merciale Colombus».

Sogno realizzato.
«Assolutamente sì. Il sogno è lì».

Si sente appagato o avverte ancora il richiamo del viaggio.
«Il richiamo del viaggio c’è sempre: è dentro di me. Giro tanto e lavoro tantissimo. Ricordo anni di grande progettualità ed evoluzione: passiamo dall’acciaio alle leghe di alluminio e poi al ti­tanio. In quegli anni lavoro al fianco di grandissimi campioni come Bugno, Chiappucci e Pantani… Avevo rapporti un po’ con tutti i più grandi corridori e le più grandi squadre del mondo, ma lo sa che Specialized in pratica entra nel ciclismo agonistico grazie al sottoscritto?...».

Davvero?
«Correva l’anno 1998, l’anno dell’accoppiata Giro-Tour di Marco Pantani, ma anche dell’affaire Festina alla Gran­de Boucle. In quel periodo la Spe­cia­lized cercava in tutti i modi di entrare nel ciclismo che conta, ma nessuno apriva loro le porte. Con lo scandalo della Festina, Juan Fernández Martín si trova a dover rifondare una squadra, a ricominciare tutto da zero. Lance Bohlen, venuto a mancare un anno fa, era invece il responsabile delle bici da strada del marchio americano, in pratica il braccio destro di Mike Sinyard. La sua missione era quella di entrare con un team, equipaggiare con le proprie biciclette una squadra. Io lo contatto e gli dico: “forse posso esserti d’aiuto”. Ci troviamo al Giro d’Italia e gli assicuro che Columbus diventerà il responsabile dei telai, li faremo fare da un artigiano di nostra fiducia e poi, una volta avuto l’ok da Bohlen, vado da Juan Fernandez e faccio in modo che i due siglino un accordo: la Festina adotterà le Specialized. È il 2001 quando Chri­stophe Moreau si aggiudica il cronoprologo di Dunkerque al Tour de Fran­ce, e grazie a questa vittoria la Spe­cia­lized veste per la prima volta nella sua storia la maglia gialla».

Ma FSA quando entra nella sua vita?
«Nel 2000. In quel periodo Dou­glas Chiang, direttore generale della FSA, si stava muovendo perché voleva aprire una filiale europea. Molti, a più riprese, avevano fatto il mio nome e lui non esitò a contattarmi. Lo incontro di ritorno dalla fiera di Tokyo, a Taiwan. Ci parliamo per un paio di ore e gli lascio anche un dettagliato “business plan”. Devo dirle che sparo anche un po’ alto, chiedendogli la bellezza di 150 milioni di lire per avviare il tutto: affitto, auto, dipendenti e tutto ciò che era necessario. Avevo già fatto anche le ve­ri­fiche bancarie necessarie per essere allineati in caso di pagamenti dall’estero. Lui prende nota e mi chiede qualche giorno per poter verificare delle cose. Dopo due settimane mi chiama il direttore della filiale Cariplo e mi dice: “Claudio, ma ha vinto la lotteria?”. “Perché?”. “Guardi, le sono stati a­c­creditati 200 milioni di lire”. Resto so­preso e stranito, ma è chiara la vo­lontà di Douglas Chiang: mi vuole a tut­ti i costi. Accetto la sfida: do le di­missioni da Colombo e entro in una nuova di­mensione».

Ora sì che incomincia il viaggio…
«Esattamente, anche se è un viaggio di pochi chilometri, perché finisco nuovamente a Cavenago, da dove ero partito…».

Come a Cavenago?...
«Come in un gioco dell’oca riparto dal via: torno da dove tutto era incominciato. Deve sapere che nel frattempo la Rossin era stata travolta dagli eventi e aveva chiuso. Comprata per un breve periodo di tempo da Dario Chiarini, alla fine anche lui si era dovuto arrendere. Io avevo già trovato una buona sistemazione a Busnago, ma un giorno mi chiama Chiarini e mi chiede: “Vuoi i miei uffici?”. Gli spiego che sarei già a posto, che ho trovato a Busnago una buona sistemazione, ma lui insiste e mi dice: “Fai tu il prezzo!”. Lo faccio e lui accetta. Mi ritrovo nell’ufficio che per anni era stato occupato da Domenico Garbelli».

Qual è il segreto della FSA?
«Quello che facciamo per le squadre credo che faccia la differenza. Le risorse che investiamo in ricerca e sviluppo, ma soprattutto nei test sono quello che le squadre e i corridori apprezzano di più. La chiave di tutto però è durante le competizioni. Avere co­me partner tecnici squadre e corridori di un certo livello è un valore aggiunto imprescindibile. La differenza si fa lì, perché solo i corridori possono contribuire allo sviluppo di un prodotto. Ricordo le parole di Eddy Merckx quando è venuto a rendere omaggio ad uno dei più grandi telaisti di tutti i tempi, Ugo De Rosa: “Sono qui per un amico, un fratello, un uomo che ha fat­to tantissimo per me, lavorando di notte per farmi avere al mattino la bicicletta più performante in assoluto”. Ecco, noi non possiamo dire di lavorare come Ugo, ma siamo un’azienda che fa della flessibilità e della velocità un credo. Sa quanti viaggi di notte ho fatto anch’io…».

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«In America abbiamo anche tante squadre mountain e, come le ho detto, servono tutte per sviluppare, testare e progettare l’evoluzione tecnica dei no­stri prodotti».

C’è un prodotto in particolare che ha se­gnato la vostra storia e di cui va fiero?
«La Compact e non solo per me o per noi, ce lo riconoscono tutti. Le racconto un episodio che riguarda la genesi della Compact. Lo spun­to arriva nel 2003 da Fausto Pinarello, che viene da me e mi dice: “Claudio, dobbiamo fare le pedivelle compact. Invece del 39x53 dobbiamo fare 34x50”. “Ma perché?”, gli chiedo. “Credimi, funzionano me­glio”. Io ne parlo a Taiwan e sviluppiamo l’idea. Dopo poco sottopongo la cosa a Fausto il quale si mostra subito en­tusiasta: “È quel­lo che volevo!”, mi dice. Al­tro balzo in avanti: Tour de France 2003, siamo partner della CSC di Bjarne Riis, al quale io presento questa nuova nostra innovazione: una speciale guarnitura in carbonio con un innovativo rapporto di trasmissione 52x36: la guarnitura “compatta”, soluzione che avrebbe con­sentito ai corridori di gestire me­glio gli sforzi sulle grandi salite. Deve sapere che fino a quel momento i corridori utilizzavano il 53x39, ma qualcosa stava per accadere: il capitano del Team CSC, Tyler Hamilton cade fratturandosi la clavicola nel prologo di Parigi e molti pensano che la sua cor­sa sia finita lì. Invece no, Hamilton tappa dopo tappa sposta sempre più in là i suoi limiti e arriva alla vigilia della temutissima e iconica tappa dell’Alpe d’Huez. Riis, che in un primo momento non si era affatto entusiasmato all’idea della Compact che gli avevo sottoposto, ci ripensa e mi chiama: “Clau­dio, per Hamilton forse una guarnitura compatta sarebbe l’ideale…”».

E quindi in viaggio…
«Esattamente. Riis mi chiama e io ri­spondo. Prendo la macchina e guido tutta la notte per raggiungere il Tour e portare la soluzione giusta a Bjarne: la prima guarnitura Compact mai prodotta. Pochi minuti prima dell’inizio della prima tappa in montagna, i meccanici del team hanno installato sulla bici di Hamilton la nuova pedivella FSA Car­bon Pro Elite da 515 grammi, il “game-changer”, permettendogli di utilizzare una corona interna da 36 denti e una esterna da 52 denti. Il resto è storia. Nella sedicesima tappa, la Pau - Ba­yonne, Tyler Hamilton ottenne un’incredibile vit­toria e in quel momento al Tour nasce una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche nel settore dei componenti e quella strada è stata innegabilmente aperta da FSA. Oggi il 90% delle vendite so­no compact».

Come vede il mercato della bicicletta?
«Per l’alta gamma ancora molto bene, in pratica dove siamo inseriti noi. At­torno alla bicicletta ruota tutto. Pensi che anche chi faceva il business invernale con lo sci, oggi punta decisamente sull’utilizzo della bicicletta. Non si prescinde da questo strumento pazzesco».

Ha un campione ideale?
«Raymond Poulidor. Quando ero in Francia, da bimbetto, papà mi portava a vedere il Tour de France e tutti acclamavano PouPou e anch’io conservo un ricordo bellissimo di questo fantastico corridore».

Ha mai corso in bicicletta?
«Mai».

Che passione ha oltre al suo lavoro?
«Mi ripeto: viaggiare. Se ho un briciolo tempo libero lo occupo con un viaggio, assieme a Betty, mia moglie».

Altri sport?
«Calcio: in cima a tutto e nonostante tutto, la mia Juventus».

È goloso?
«Molto, troppo».

Per farla sciogliere cosa occorre?
«Mi è sufficiente un tiramisù, ma deve essere fatto da Betty che è la campionessa del mondo».

Cosa la manda in bestia?
«I ritardatari».

Una canzone del cuore?
«Lucio Battisti, tutto. Canzone: “Pen­sie­ri e Parole”, che poi sono due canzoni in una».

È una compact…
«Giusto!».

Un film?
«Blade Ranner».

Visto che le piacciono le sfide, quale sarà la prossima?
«Il nostro sogno è diventare un brand tra i top 5 della componentistica. Stia­mo lavorando per questo».

Non so di chi sia, ma è una bella frase, che penso possa calzare a pennello per lei. “Un uomo percorre il mondo in­tero in cerca di ciò che gli serve e torna a casa per trovarlo”.
«Mi ci ritrovo alla perfezione: amo viaggiare, ma il ritorno è un approdo al quale non posso rinunciare. Tornare per partire: il massimo. Full Speed Ahead. Avanti tutta!».

da tuttoBICI di maggio

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