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A LUCI SPENTE
di Pier Augusto Stagi | 22/07/2019 | 07:31

Squadre ultra attrezzate, cariche di sapere e scienza: manca solo un po’ di buonsenso, quello che ha accompagnato fin qui il nostro beneamato sport. Tecnici che si dimenticano di dare una mantellina al proprio corridore: vi ricordate il povero Steven Kruijswijk che cade lungo la discesa del colle dell’Agnello? Era il 2016, non vent’anni fa. Non gliela danno in cima alla salita e tantomeno quando lo sventurato corridore olandese finisce in un cumulo di neve. No, lo rimettono in sella e in una giornata da tregenda, ad oltre 2.500 metri di altitudine, lo lasciano lì tremebondo che consuma il suo dramma a fiordipelle. Quest’anno, nella tappa di Como, lo sloveno Primoz Roglic è costretto a cambiare al volo la propria bicicletta perché l’ammiraglia al seguito si è fermata a 20 chilometri dal traguardo: il diesse ha un’urgenza fisiologica da espletare, al diavolo tutto! Poi c’è il povero Dumoulin, che sul Colle delle Finestre con Froome che lo precede in cima al Gpm con soli 40” di distacco, riceve dall’ammiraglia l’ordine di aspettare Pinot e compagnia. Per la serie: dove vuoi andare da solo dietro a quello là, meglio in compagnia. Per la cronaca, che è poi diventata storia, in fondo alla discesa Froome accumula un vantaggio superiore al minuto e mezzo.

Quest’anno l’ennesimo intoppo per il povero Tom. Vittima di una brutta caduta nella tappa di Frascati al Giro, l’olandese dopo un breve recupero e un’adeguata convalescenza, si ripresenta al Delfinato in vista del Tour, ma deve abbandonare, sempre per problemi al ginocchio.  Un ritiro precauzionale, per ultimare in altura la preparazione, ma già che c’è il corridore della Sunweb viene sottoposto ad una piccola operazione, per rimuovere «quello che sembrava inizialmente un pezzo di metallo, ma che infine si è rivelato un piccolo frammento di ghiaia», la spiegazione di Camiel Aldershof, il medico della squadra tedesca. Un piccolo frammento di ghiaia, tenuto lì per più di un mese. Insomma, team sempre più in mano a luminari, che viaggiano a luci spente.
 
ASSISTETELI. Le biciclette elettriche sono chiaramente un’opportunità, per chi le utilizza e per chi le produce e vende. È stata per il secondo anno un’opportunità anche per Rcs Sport, che ha messo in scena la seconda edizione del Giro E. Doveva essere la fiera delle possibilità, è diventata un’occasione di vanità. Non per tutti, ma per molti. Doveva essere una vetrina, un modo per pedalare in amicizia, affiancando tanti aficionados del ciclismo. Pedalate assistite, per assistere a panorami mozzafiato, in un abbraccio corale, morale e totale. Non è stato così, per alcuni. I soliti, per la verità. I soliti noti, alcuni ex professionisti di cui non faccio il nome per il bene della loro storia, che sono stati cordialmente mandati a quel paese per aver ingaggiato sfide imbarazzanti, come sulle strade da Vinci a Fucecchio, dove l’idea della partecipazione totale e corale doveva essere il principio ispiratore. Partiti da Vinci, alcuni di questi geni hanno preso questa iniziativa con un imperativo categorico: vincere! L’errore è stato anche di chi ha pensato questo Giro E, e ha proposto classifiche e maglie. Insomma, l’idea è buona, la messa in opera e il risultato un po’ meno. Il Giro E deve essere l’occasione per promuovere la pedalata assistita, nient’altro che un nuovo modo di intendere la mobilità, non l’occasione per esaltare frustrazioni agonistiche mai sopite e appagate. Non è bello assistere a certi spettacoli in nome della pedalata assistita. Un consiglio agli amici di Rcs Sport: lasciateli a casa. Certi soggetti è meglio affidarli direttamente a qualche centro: assistito.

ALL’AVANGUARDIA. Il Giro dei colombiani deve rendere felici anche noi italiani. Giro duro? Sì, certo, ma giusto così. Dopo i russi Sivakov 2017 e Vlasov 2018, ecco il colombiano Andres Camilo Ardila. Il podio è cosa loro, e con tutta quella salita non poteva essere altrimenti. Ma Alessandro Covi è lì, alle spalle di altri due colombiani come Rubio Reyes e Alba. Covi è quarto a 6’54”, e il varesino della Colpack ha solo vent’anni. Un anno fa era stato il miglior azzurro, con il suo ottavo posto. Cresce il ragazzo, e con lui la scuola tricolore per la gioia del CT Davide Cassani, l’uomo che ha riportato il Giro Baby, grazie a preziosi collaboratori e amici come Marco Selleri e Marco Pavarini alla Nuova Ciclistica Placci. L’Italia conquista due tappe con Mazzucco e Venchiarutti e inserisce altri due ventenni nei dieci: Filippo Conca, quinto e Filippo Zana, decimo. Cassani è stato chiaro, come sempre del resto: questa corsa doveva alzare l’asticella. E i team di casa nostra con i loro ragazzi, questa asticella l’hanno chiaramente innalzata. Cinque regioni, 31 squadre, di cui 14 straniere provenienti da 11 nazioni: un Giro sempre meglio organizzato e sempre più grande e internazionale. Una corsa che ha il dovere di testare e, per certi versi, ricomporre e riordinare le nostre ambizioni. Troppo spesso nel ciclismo di casa nostra fatto sull’uscio, consideriamo campione chi non ha nemmeno le stimmate del corridore. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il ciclismo colombiano è una superpotenza, noi miseri tapini siamo però lì dietro, nelle vicinanze. È vero, il podio non c’è, ma basta girarsi per accorgersi che non siamo messi poi così male. Alle nostre spalle c’è il mondo e un futuro che ci vede, se non davanti, perlomeno all’avanguardia.

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