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CIAO SARA. IL CASO DI FEDERICO IACOMONI E QUELLA DOMANDA CHE SORGE DOPO LA SENTENZA...
di Paolo Broggi | 25/01/2025 | 11:00

Scrivere oggi, a poche ore dall’ennesimo tragico incidente che è costato la vita a Sara Piffer, fa ancora più male. Perché quella che vi raccontiamo è la fotografia dello stato dell’arte nel nostro Paese per quel che riguarda gli utenti delle due ruote. E che non ci sia alzata di scudi contro questo o quel governo: l’amara realtà è che nessun Parlamento ha mai preso in considerazione l’essere umano che pedala.

Seguiteci. Il 22 novembre 2023 Federico Iacomoni si sta allenando sulle strade del suo Trentino, precisamente lungo la statale 612, quando viene centrato frontalmente da una Golf che, operando un sorpasso, ha invaso la corsia opposta.

La Pinarello del corridore classe 2002 va letteralmente in pezzi, lui vola nella scarpata con fratture al braccio sinistro, al bacino e all’osso sacro, con contusioni polmonari. Si salva solo per il fatto di essere volato nella scarpata, in mezzo alle vigne.

Viene operato, 68 giorni di prognosi che in realtà diventano quattro mesi di ospedale più una lunga riabilitazione a casa e una stabilità psicologica da ricostruire per tornare in bicicletta.

Federico ce la fa, torna, vince in maglia Zalf la Coppa Ciuffenna a settembre e ora si prepara all’esordio stagionale con la Biesse Carrera: ma questa, ai fini della nostra storia, è una nota marginale.

Perché la nostra storia continua con il processo all’investitore, un trentenne residente in Val di Cembra, M. E. le sue iniziali, una Volkswagen Golf la sua auto. Scrive il giudice Marco Tamburrino nella sentenza che «l'impatto con la bicicletta era avvenuto a causa di una manovra di sorpasso di più veicoli eseguita in prossimità di un tratto di strada con linea continua e andamento curvilineo caratterizzato da scarsa visibilità anche per la luce abbagliante del sole».

La sentenza: 8 mesi, pena sospesa. Il difensore dell'automobilista ha chiesto di poter patteggiare e il giudice ha ritenuto congruo l'accordo fra le parti, ossia la procura e la difesa. Dalla pena base di 1 anno e 6 mesi di reclusione, con la riduzione per il rito e per le attenuanti generiche (il buon comportamento processuale dell'imputato) si arriva a 8 mesi di reclusione, pena sospesa e il giudice ha disposto la restituzione della patente.

La signora Raffaella, mamma di Federico, alla lettura della sentenza ha commentato ai cronisti de L’Adige: «Mio figlio si è fatto quattro mesi di ospedale più il periodo di riabilitazione a casa. Le pene per questo tipo di reati sono da inasprire. Non parlo di carcere, ma almeno di lavori socialmente utili, in modo che chi sbaglia possa rendersi conto del proprio error. Federico ha perso un anno e l'occasione di diventare professionista. Oltre alle ferite ha avuto un profondo shock: tanta è stata la fatica a tornare sulla bici. Per questo penso che c'è qualcosa che non va nelle legge: non è possibile che la persona che ha causato l'incidente non abbia "pagato" nulla per ciò che ha fatto: la pena è sospesa e la patente è stata restituita».

In questa vicenda nessun errore: l’automobilista ha fatto valere i suoi diritti attraverso il lavoro del suo avvocato difensore, il giudice ha applicato le sanzioni previste dalla legge, il signor E.M. ha probabilmente continuato la sua vita di sempre e ora, grazie alla sentenza, ha riavuto anche la patente.

Ma c’è una domanda che continua a rimbalzare nel nostro cervello: come si fa a non diventare giustizialisti?

L’educazione ricevuta, gli studi fatti, le letture e l’esperienza di una vita, quel briciolo di intelligenza di cui siamo dotati ci spingono ad accettare la sentenza che è espressione delle leggi del nostro Paese, della nostra civiltà, del nostro essere uomini moderni.

Ma la domanda continua a rimbalzare nel nostro cervello: come si fa a non diventare giustizialisti?

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