Gatti & Misfatti
Nazionale con filtro
di Cristiano Gatti

Non lo dico perché continuiamo a perdere (qualcuno forse mi riconoscerà di averlo detto molto prima di perdere): ma la nazionale azzurra è decisamente cambiata. Dal mio punto di vista, neppure questo lo dico solo adesso, totalmente in peggio. E forse è questo, a bocce ferme, lontani dai prossimi impegni, il momento migliore per affrontare l’argomento: anche se so benissimo che ormai il cittì Antonio Fusi è blindatissimo e detiene tutti i poteri per decreto presidenziale (Ceruti l’ha fatto, guai a chi glielo tocca).

Eppure anche nei periodi più bui delle più feroci dittature non bisogna mai smettere di sollevare rilievi, anche se flebili e inascoltati. Dai e dai, qualcosa resterà. E allora avanti, serenamente e cocciutamente. Anche solo per dimostrare che il ragionamento, almeno quello, non può impedirlo nessuno. Nemmeno un capo col cento per cento dei poteri. E purtroppo è proprio questo il primo cambiamento - in peggio, molto in peggio - registrato nell’ambiente della nazionale: nessuno è più libero di pensarla come vuole. Meglio: sono tutti liberissimi di pensarla come vuole il cittì. Fosse solo per noi giornalisti, pazienza: siamo razza fetentona, non è una novità. Tranne pochi esponenti accuratamente selezionati dallo stesso cittì (casualmente quelli che lui ritiene più potenti), non ci meritiamo il rispetto e la tolleranza. E comunque abbiamo le spalle larghe, abituati ormai ad essere un luogo comune sul tipo di quelli che «una volta qui era tutta campagna»: per noi vale che «raccontano un sacco di balle, sono tutti mangioni e tutti venduti». Non sarà un detrattore in più a cambiare i nostri destini: anche perché, sia detto solo per inciso, è quando cala la sera, davanti ad uno specchio, che tutti noi siamo chiamati a rendere conto, non certo a un Fusi qualunque.

Il problema è che il divieto di opinione è esteso a tutti: dal primo capitano all’ultimo massaggiatore. Negata ogni libertà di pensiero e di parola, come nei più floridi regimi dell’Est, quando l’Est era l’Est. Si fa come dice il capo. E ciascuno stia rigorosamente al suo posto. Il clima? Per dare un’idea, a me viene in mente soltanto la Bulgaria, quando la Bulgaria era la Bulgaria, però col coprifuoco. Facce serie, parole pochine, battute solo di nascosto. Ma che bella nazionale: ci siamo fatti una nazionale col filtro.

Già è fatica al solo pensiero di come reagiranno Fusi e il suo mentore (calma presidente, l’accento è sulla prima «e») Ceruti: tutte balle, la nazionale è tornata ad essere un ambiente serio, dove si lavora seriamente e dove entrano solo persone serie. Va bene così, non ho nulla da eccepire. Per essere seria, è molto seria. La volta che vinciamo, sul podio facciamo partire il Te Deum. Se è questo che vuole la nuova gestione, l’obiettivo va considerato raggiunto. Se poi una volta ci vincono anche il Mondiale, ci fanno pure un grosso regalo.

Dopo l’ultima esperienza veronese, la nostalgia si fa molto forte. Non è mai bella, la nostalgia per la nostalgia. È un sentimento subdolo, dal vago effetto paralizzante. Costringe ad affrontare la vita voltati all’indietro, quando bisognerebbe avere sempre lo sguardo ben diritto in avanti. Ma chi ha seguito tante spedizioni mondiali non può non concedersi anche un solo minuto di malinconia, per quelle giornate passate al seguito di grandi personaggi, senza avvertire mai la pietosa sensazione d’essere tornati improvvisamente in caserma, senza l’inquietante timore d’essere chiamati quanto prima al Pao o al turno di guardia. C’era piuttosto la sensazione di trovarsi al seguito di una grande compagnia di giro, con spiccate personalità, anche tra quelle considerate secondarie o di supporto (sarò malato, ma io sono convinto che un Cassani e un Ghirotto nel collegio di adesso sarebbero star e primedonne). C’erano i Moser e i Saronni, c’erano gli Argentin e i Fondriest, c’erano i Bugno e i Chiappucci. Parlo solo dell’era che ho conosciuto di persona, ma dai racconti dei Fossati e degli Ormezzano, dei Sala e dei Negri, risulta che anche prima era lo stesso. Un piacere.

Parlo soprattutto e ovviamente dell’era Martini. Delle sue barzellette, delle sue fumerie, dei suoi ricordi. Quando era un divertimento stare un’ora attorno ai meccanici, parlando di mogli, di figli e di fidanzate, di tutto e di niente, senza che per questo il lavoro procedesse meno seriamente e meno attentamente. Il lavoro era lo stesso. I risultati nettamente migliori. Ma innanzi tutto era diversa la cosa più importante: lo spirito. C’era l’ambiente disintossicante e terapeutico della grande famiglia: certo, con le sue liti e le sue rivalità, con i suoi caratteri e con le sue diverse personalità. Appunto, come in ogni famiglia vera e veramente unita. Ma entrarci era un’ossigenazione: ci si andava con molta voglia, sentendosi subito a casa. E adesso? Adesso ci si sente subito in galera: sì, qualcosa è cambiato. In nome dell’efficientismo modernista dei maestri di sport, in nome dei sacri valori del gruppo e del collettivo, la nazionale è un grigio monolite costruito sul silenzio e sulla disciplina. Lo slogan? Vola basso e dormi preoccupato. In questo simpatico clima, mi aspetto veramente di tutto. Non mi stupirei se l’anno prossimo fossero introdotti l’adunata e l’alzabandiera, con controllo della sfumatura alta e delle basette. E per chi non ha fatto il cubo, subito la saponata.

Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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