Se non lo facciamo adesso, a corse ferme e biciclette in garage, non lo facciamo più. E allora facciamolo, questo gesto doveroso, nei confronti della componente più nobile e seria di questo ciclismo afflitto: il pubblico. Diciamo complimenti a tutti, perché in mezzo a tante bufere e a parecchie vergogne, gli appassionati della bicicletta emergono trionfalmente su tutta quanta la concorrenza.
Mi rifiuto da subito di chiamarli tifosi. Se c’è un torto che potremmo infliggere a questi militanti del pedale è proprio definirli tifosi. Il tifo, soprattutto da noi, nello sport come nella politica, è la degenerazione totale di una passione. È fazioso, cattivo, avvelenato. Soprattutto idiota. Nel ciclismo, tutto questo non l’ho mai trovato. Forse qualche volta, in qualche momento particolare, nelle frange estreme dei pantaniani. Ma in generale, dai pantaniani normali fino ai gottisti o ai bartoliani, tutti quanti si sono sempre distinti per calore, per passione, per trasporto: mai per cattiveria o per poca sportività.
Sorvolo qui sui dati di fatto ormai più volte chiariti, e cioè lo spirito di sopportazione e la dedizione delle gente che sta in strada per ore, sotto il sole o sotto la tormenta, per vedere un rapido passaggio della corsa: ormai, neppure il più mentecatto degli altri sport ha più il coraggio di dire che «il ciclismo ha tanto pubblico perché non si paga» (piccola parentesi: ai Mondiali si paga, ma c’è il pienone lo stesso).
Vorrei piuttosto attribuire a questo pubblico gli altri meriti che gli spettano. Prima cosa: la competenza. Chi segue le corse di bicicletta legge tutto, ascolta tutto, conosce tutto: spesso, più di noi giornalisti, che puntualmente veniamo pescati in castagna e pesantemente redarguiti a mezzo lettera, o telefonata, o recentissime e-mail. A questa gente piace confrontarsi, chiedere ed esprimere opinioni. Come in tutti gli sport, dirà qualcuno: certo, ma con una fondamentale differenza. L’appassionato di ciclismo parla di ciò che conosce, altri invece di ciò che hanno sentito dire. Non è una cosa da poco. Per questo merita un enorme rispetto: perché ama il suo campione e ha le sue simpatie, ma riesce comunque sempre a ragionarci sopra con quell’elemento fondamentale che è il rispetto. Rispetto per l’avversario, rispetto per il lavoro che fa. Complimenti anche per questo.
Proviamo soltanto ad immaginare se la gente del ciclismo avesse l’atteggiamento forcaiolo e violento di tanto tifo calcistico: come minimo, ogni corsa finirebbe dopo una trentina di chilometri, sotto una pioggia di candelotti e di petardi nel mucchio. Negli stadi continuano a montare reti e vetrate sempre più alte per proteggere gli atleti nell’arena dalla veemenza del loro pubblico: il ciclismo continua tranquillamente a passare per strada, in mezzo ai paesi, senza un filtro o una protezione. Come faccia, sinceramente non l’ho mai capito. Perché è vero che il pubblico è sportivo, competente ed educato, ma è altrettanto vero che in qualunque angolo del mondo si annida sempre un deficiente qualsiasi: ne basta uno solo, uno al quale non importi nemmeno delle corse, per provocare un macello. Eppure, niente: la gara si snoda per tanti chilometri, quasi protetta da una mano superiore. Io comunque un’idea meno mistica me la sono fatta: è evidente che lo stesso pubblico funge da servizio d’ordine spontaneo. Ci ho fatto caso tante volte: spesso è lo spettatore, prima ancora del carabiniere o del gendarme, a richiamare il «collega» esuberante e pericoloso. Anche questa, mi pare, è una prerogativa unica e inimitabile: il pubblico che si pone come tutela e garanzia del suo sport. Complimenti pure per questo.
C’è un’altra cosa molto bella, quasi toccante. Dopo che l’appassionato ha applaudito il suo idolo, eccolo applaudire anche l’avversario del suo idolo. Magari al pantaniano (parlo di quello normale) dà sui nervi che Ullrich vada più forte, ma non arriverà mai a oltraggiarlo. Non lo sputa, non gli lancia ortaggi, non gli mette il bastone fra le ruote. Per restare su un tema di attualità: se Ullrich fosse nero, scommetterei che nessuno intonerebbe quegli «UUUUUUUU» di gran moda negli stadi. Niente di tutto questo: applaudito Pantani, applaudito Bartoli, l’appassionato si dedica ai ritardatari, applaudendo forse con maggior umanità l’ultimo degli stravolti. Ancora complimenti.
Rimanendo negli sport più popolari, tante volte mi è capitato di confrontare questa bella realtà con quella del calcio o della Formula Uno. Ho visto i tifosi della Ferrari esultare quando il «nemico» andava a sbattere, ho visto intere curve urlare «devi morire» all’avversario che si teneva fra le mani tibia e perone fratturati. Questo è il tifo, questo è il sentimento degenerato che non ha mai messo piede nel ciclismo. Spesso mi sono chiesto quale possa essere la ragione ultima di questo incantesimo. Non ne ho mai trovata una certissima. Ma una che mi convince e che merita i più grandi complimenti, sì. Il ciclismo ha un pubblico nobile perché, prima di tifare il suo campione, tifa il suo sport.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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