Editoriale
Aben guardare, un aspetto positivo questa ennesima vicenda doping che ha travolto alla vigilia dei Giochi Olimpici di Sydney Andrea Collinelli, uno dei volti più noti del ciclismo italiano, ce l’ha. Il ciclismo non sta affatto scherzando: fa molto sul serio. Chi pensa e ritiene che il ciclismo stia cincischiando in materia di doping, si sbaglia di grosso. Nonostante i «certificati», le perquisizioni della Guardia di Finanza e qualche silenzio di troppo, qualcosa si muove, e i soli a non capirlo, sono sempre solo loro: i corridori.
È verissimo anche che il ciclismo coglie i suoi polli, proprio perché probabilmente sono sostanzialmente dei «polli». Come giudicate voi un corridore, nella fattispecie Andrea Collinelli, che dice di avere avuto il cerficato per usare farmaci a «restrizione d’uso» e poi si è dimenticato di presentarlo? È un vero campione... di leggerezza.
Purtroppo, per il secondo mese consecutivo, mi trovo e ci troviamo a dover parlare di questo dannatissimo argomento: il doping. Noi, quanto voi, non ne possiamo davvero più. Questo è il punto di partenza ma anche di arrivo. Bisogna decidersi, una volta per tutte: diamoci un taglio, così non si può più andare avanti. Ormai, per chiunque e per noi in particolare che di mestiere facciamo giornali di ciclismo, non è più possibile gioire o goderci lo spettacolo senza lo spettro del doping. Il nostro modo di fare giornali e giornalismo è oramai sempre e soltanto «sub judice»: fino a prova contraria. In questo numero vedrete una sorta di collage fotografico sugli «Assoluti di Dalmine», senza commenti: indovinate perché? E la «Sei Giorni delle Rose» di Fiorenzuola? Abbiamo preferito parlare di quello che hanno saputo fare Santi e il suo staff. E non riempiamoci la bocca con i soliti slogan pieni di nulla del tipo: «è tutta colpa di Hein Verbruggen». Il presidente dell’UCI non sarà immune da errori ma ha una gran bella gatta da pelare fra le mani, e a differenza del nostro Coni e della nostra Federazione (che da dieci mesi a questa parte ha radicalmente cambiato tiro e atteggiamento), ha cercato e cerca di governare un vascello che sta facendo acqua da tutte le parti. Certo, sarebbe più facile gettare tutto in mare, chiudere baracca e burattini e magari dire: «ragazzi, avete vinto, andate a quel paese!», ma il ciclismo ha il dovere di andare avanti, a costo di qualche compromesso e silenzio per nulla compiaciuto e compiacente. All’UCI non sono in odore di santità ma non sono nemmeno degli sciacalli: i veri filibustieri stanno altrove. È piuttosto giunto il momento di chiarirsi le idee, un po’ tutti. Vogliamo realmente darci un taglio? Se è sì che si vada a fondo della questione, senza esitazione alcuna. Quindi niente certificati e certificatini: chi è malaticcio o ha bisogno di cure che stia a casa sua.

Chi invece la pensa diversamente e sposa la teoria alla Vittorio Feltri, direttore di Libero, che qualche settimana fa è «sceso in campo» a favore degli «sportivi certificati» teorizzando la libertà di prendere quello che serve per rimanere in piedi, come un qualsiasi impiegato o direttore di giornale, lo dica a chiara voce e senza mezzi termini. Piccolo particolare: ricordiamoci che nell’essenza dello sportivo ci dovrebbe essere quella di dimostrare di essere il più forte fisicamente, non il più intelligente, colto o preparato. Un bravo impiegato non lo si misura in base a quanta resistenza fisica possiede, un bravo sportivo sì. Ad ogni modo basta solo decidersi: la vogliamo combattere questa battaglia al doping si o no? Se è sì che lo si faccia sino in fondo, altrimenti diamoci un taglio, perché così è semplicemente folle, non può perdurare a lungo questo stillicidio. Che lo Stato vari finalmente una legge forte e chiara e che il Coni decida da che parte stare. Vuole uno sport e degli atleti credibili o vuole le medaglie? Oppure vuole per tre anni lo sport pulito e nell’anno olimpico le medaglie? Faccia lui.

Un anno fa, solo un anno orsono, si compiaceva nell’aver beccato Marco Pantani con le mani nella marmellata. Il romagnolo fu additato al ludibrio generale e trattato come simbolo di un ciclismo corrotto e corruttibile. Bene, «Pantani il mostro», l’uomo di tutti gli scandali ad un anno di distanza è diventato l’uomo simbolo dell’Olimpiade, il portabandiera del nostro ciclismo a Sydney. E se è vera la teoria che vuole Marco Pantani nel «quintetto» di Sydney proprio perché il romagnolo ha voluto prendersi una sonante rivincita al cospetto del mondo intero, beh, scusateci ma stiamo con lui.
Un anno fa tutti pronti a dare la «caccia alle streghe»; quest’anno tutti tranquillamente e allegramente a caccia di medaglie. Medaglie e corridori «certificati», ma privi di garanzia.

Pier Augusto Stagi
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