Editoriale
Il ciclismo fa male, molto male, e questo è un fatto ormai inconfutabile. Conoscete forse corridori in salute, che non abbiano per lo meno una bella allergia al polline a complicargli la vita? Noi cominciamo a pensare che in circolazione ce ne siano ben pochi e il nostro non è soltanto un sospetto, ma il risultato di dati che la stessa Organizzazione mondiale del ciclismo (UCI) ha dovuto rilevare con profondo stupore e preoccupazione, tanto da sentirsi in dovere di organizzare - come si legge in un commento-rivelazione di Eugenio Capodacqua, giornalista de La Repubblica, sul suo sito (www.sportpro.it) - un incontro a Gallarate, presso l’Hotel Astoria, a un passo dalla Malpensa. All’appuntamento del 27 giugno scorso si sono presentati i medici di molte squadre professionistiche (assenti quelli della Mapei), tutti a rapporto dal dottor Zorzoli, rappresentante della Commissione medica dell’UCI, il quale ha deciso di convocare in tutta segretezza i responsabili sanitari dei maggiori team professionistici per trattare un argomento a dir poco spinoso: i libretti medici dei corridori testati all’ultimo Giro d’Italia. La ragione di questo rendez-vous clandestino è semplice: nel rispetto di una nuova normativa, i corridori «controllati» al Giro sono stati sottoposti anche a test per l’individuazione di «corticosteroidi» che, come è noto ai più e in particolare ai responsabili sanitari dei team e ai loro assistiti, sono sostanze soggette per regolamento a restrizione d’uso.

In pratica, il medico societario ha il dovere di denunciare e scrivere sul libretto del corridore - controllato o no - l’uso e la tipologia delle sostanze adoperate per qualsiasi ragione. L’atleta soffre di un’allergia? Bene, al corridore sarà somministrato un prodotto che sarebbe vietato ma lo può usare se accompagnato da regolare dichiarazione preventiva in modo che, se l’atleta dovesse risultare «positivo» ad un controllo per quel farmaco dichiarato, non gli succederebbe niente perché dimostrerebbe che l’uso era stato fatto per motivi terapeutici. I risultati emersi dall’ultimo Giro d’Italia sono addirittura raccapriccianti: nei test di almeno un’ottantina di corridori si sono trovate tracce di questi famigerati «corticosteroidi» e, a quanto ci è dato sapere da alcuni ben informati, per almeno una ventina di essi la necessaria denuncia preventiva non c’era.
In parole povere, su cento corridori almeno 80 non stavano bene, soffrivano di disturbi di varia natura, tanto da dover ricorrere alla somministrazione di medicinali non vietati ma sottomessi a certe restrizioni. E la stessa cosa si è ripetuta al Tour de France: uguale uguale. Nessun positivo, ma alcuni «casi» giustificati. Non sarebbe giusto parlare di dopati, perché nella sostanza non lo sono, ma nella forma ci avviciniamo di parecchio. E se all’UCI, per i «casi» del Giro hanno risposto dicendo che «alcuni corridori non sapevano che queste sostanze erano rintracciabili nei test, dunque non ne hanno annotato nel libretto sanitario l’uso» (cosa che avrebbe dovuto portare ad ogni modo ad un provvedimento disciplinare), per quanto riguarda il Tour si sono limitati a dire che i malaticci della Grande Boucle erano «alcuni». Un dato: dei 9 corridori testati nei primi tre giorni, pare che più del 50% abbia «dovuto» ricorrere alle citate «sostanze leggere». Nel ciclismo siamo arrivati quindi alla «modica quantità»: un pochino di doping, poco poco, devono farselo un po’ tutti. E non hanno problemi a dircelo. Ma non è finita qui.

Data la situazione delicata, e per certi versi allarmante, il presidente Hein Verbruggen si è sentito in dovere di scrivere una lettera a tutti i team manager delle squadre partecipanti al Tour a «sostegno morale per lo stress cui andranno incontro per i nuovi metodi di controllo in aggiunta ai test sul sangue; perché in carovana ci sono giornalisti che sono lì solo per gli scandali; perché certi politici cercheranno di strumentalizzare il Tour per le campagne elettorali». Che l’Unione Ciclistica Internazionale si trovi a dover far fronte ad una lotta quasi suicida è sotto gli occhi di tutti. Ma è altrettanto vero che dai team e dai corridori non stanno arrivando gli sperati segnali di resa: il deponete le armi non c’è stato e avanti di questo passo non ci sarà se non si arriverà ad una linea di gran lunga più coercitiva. Tanto per incominciare perché al Tour non si è arrivati a rendere pubblici anche i nomi di chi assume il «doping pulito» e non solo l’elenco delle sostanze? I sospetti incrociati verrebbero stroncati sul nascere e le talpe dei laboratori neutralizzate. Altrimenti, diciamocelo chiaro e tondo: se la lotta al doping non la vogliamo fare che non la si faccia, ma finiamola di prenderci in giro e soprattutto di prendere per il naso gli sportivi che vogliono tornare a credere nel ciclismo, nei corridori e nelle loro imprese. Oppure, visto che i furbi vogliono essere sempre più intelligenti di tutti in quanto furbi, che si arrivi al bando totale di qualsiasi uso di medicina: un corridore fatica a proseguire la sua corsa perché raffreddato? Se vuole prosegue la sua fatica con il raffreddore, altrimenti se ne torna a casa. Ci sono atleti condizionati dalle allergie di stagione (male che attanaglia la quasi totalità dei corridori)? Amen, aspetteranno momenti più propizi. È una provocazione la nostra, ma a forza di provocazioni...
Pier Augusto Stagi
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