Il rischio, adesso, è che si ricominci tutto da capo. Purtroppo è proprio questa la più allarmante conseguenza che potrebbe verificarsi dopo quasi due anni di pandemonio sul doping (pago tremila di multa per affrontare ancora questo tema, ma spero sia l’ultima). E perché mai? Sommariamente, perché dopo la paura i corridori potrebbero tirare la pericolosissima e insensata conclusione che tanto non succede nulla. Nemmeno dopo che sembrava scoppiasse la terza guerra mondiale.
Sgomberato il campo dal polverone, è possibile finalmente vederci un po’ più chiaro. Insomma, tirare una qualche conclusione. E per non farla tanto lunga, basti dire che dopo tante inchieste, avvisi di garanzia, interrogatori, analisi di laboratorio, confronti, deferimenti, cioè dopo una babele di atti e di scandali, ci ritroviamo con un farmacista bolognese rinviato a giudizio assieme al famoso dottor Ferrari, più qualche atleta fermato per ematocrito preoccupante, comunque non squalificabile perché non si tratta di reato: anche le suore e le pettinatrici ormai hanno imparato che gli atleti vengono fermati soltanto «a tutela della loro salute». Tutto qui? Tutto qui. Nonostante la fattiva e terroristica opera dei professionisti dell’antidoping, per i quali un deferimento equivale a una condanna, salvo poi cadere nell’imbarazzo quando arriva l’assoluzione, nonostante molti titoloni e moltissime insinuazioni, la giustizia sportiva e non sportiva non ha portato a null’altro. Sì, è veramente tutto qui.
Eccomi al punto: davanti a questo scenario improvvisamente azzurro, dopo il pericolo scampato, il ciclista medio - che è decisamente un po’ birbante - può tranquillamente trarre la più facile e immediata delle conclusioni: mi avevano preannunciato l’apocalisse, non è successo nulla, allora via libera. Via libera a che cosa? Su, non facciamo gli ingenui: al doping. Così potrebbe davvero finire questa interminabile storia. Contenti loro, contenti tutti. Almeno, però, non chiedano di stravincere. Se è vero che da un punto di vista giudiziario e regolamentare si può fare poco, almeno fino a quando qualche genio di laboratorio non metterà a punto questo benedetto metodo per trovare l’Epo sintetica nel sangue (domanda ingenua: ma non l’avevano scoperto dieci anni fa?), fino a quando cioè non ci sarà una prova certa per stabilire che un atleta ha aggiunto al suo sangue una sostanza esterna, fino a questo radioso momento nessuno rischierà granchè. Al massimo quindici giorni di riposo e un imbarazzo pubblico. Ma se è vero questo, in altre parole che esiste una sorta di obbligata impunità, i corridori non possono pensare di uscire da questi due anni anche casti e immacolati. Possono chiederci rispetto, possono rivendicare assoluzioni in mancanza di prove certe. Ma per piacere non pretendano anche certificati di santità. Sarebbe un po’ troppo. Se loro non vogliono passare tutti per drogati, la gente non vuole passare tutta per beota.
Se hanno voglia, ricomincino pure. Ci sarà sicuramente chi s’è convinto che in fondo basta soltanto stare un po’ più attenti: diciamo che il doping non è più uno scherzo come una volta, che va organizzato meglio, ma che comunque può tranquillamente funzionare. Facciano pure. Ma rispetto a una volta devono sapere che noi sappiamo. Perché è vero che nessuno è uscito da questi due anni con la patente ufficiale del dopato (a parte i rei confessi tipo Festina, ovviamente), ma è altrettanto vero che c’è una novità persino peggiore di tante condanne: i dati delle analisi. Rispetto al passato, sappiamo che nove corridori su dieci circolano con un ematocrito stabilmente sul filo dei cinquanta, proprio loro che con tutto quel movimento dovrebbero averlo più basso di noi. E se è pura verità dire che cinquanta non significa Epo sintetica, perché non c’è prova e perché ci sono eccezioni così alte per via genetica, è altrettanto pura verità ricordare come mediamente gli umani viaggino con ematocrito sotto il quarantacinque. Due anni di finimondo, se non sono serviti a condannare, sono serviti almeno a questo: a divulgare, a scoperchiare, a educare. A rendere pubblica una piaga che prima del famoso Tour i corridori credevano di poter nascondere.
Questo è cambiato, di sostanziale e determinante: adesso sanno che tutti sappiamo. Che le frottole da asilo non reggono più. Che a nessuno sarà più permesso di fare il finto tonto. Non è un risultato da poco: se non altro, toglie arroganza e strafottenza a un mondo troppo disinvolto e sicuro di sé. Poi, sul futuro, nessuno può scommettere: superata l’Epo, ci sono già in circolazione sostanze dinamitarde, per le prestazioni e per la salute. Non è escluso che quanto prima esplodano nuovi scandali e nuove discussioni. Se non altro, però, stavolta ricominceremo su basi nuove. Sapranno che noi sappiamo.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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