Editoriale
Anno nuovo, dubbi vecchi. Non abbiamo più certezze: questa è l’unica cosa certa. Per il ciclismo si chiude uno degli anni più neri della sua secolare storia, ma quel che maggiormente ci preoccupa è che il nuovo che avanza ci spaventa forse di più. Che ne sarà di noi, del nostro sport, dei nostri beneamati protagonisti a due ruote? Quale futuro ci riserveranno il 2000 e gli anni a venire? Molte le domande, poche pochissime le risposte. D’altra parte è un segno dei tempi. Il 1° gennaio 2000 è solo l’inizio dell’ultimo anno del XX secolo o anche il primo del terzo millennio? Sarà vero che a Anadyr, dai russi chiamata Ratmanova, il nuovo anno è stato festeggiato con 11 ore di anticipo rispetto a noi? Sarà poi vero che siamo nel 2000? Sappiamo che il 2000 dell’era cristiana non corrisponde al calendario mussulmano né a quello cinese, e neppure a quello ebraico. Inoltre, diversi autorevoli studiosi sono del parere che Cristo sia nato qualche anno prima rispetto alla data comunemente considerata. In questo caso, quindi, potremmo essere già entrati nel 2000 senza neppure saperlo. E come se non bastasse ci sono le profezie porta sfiga di Nostradamus, l’eclisse che ci siamo lasciati da poco alle spalle e una luna, quella Grande del 22 dicembre scorso, che torna vicinissima alla Terra dopo 130 anni. E poi ancora il Millennium Bug, Internet, il digitale, il satellitare tutte cose che ci condurrano in un futuro sempre più oscuro e ignoto. E in questo magma futurista prevale quel fantastico senso di confusione e d’incertezza che rende chiaro solo il nostro turbamento. Sappiamo che qualcosa è cambiato e che molto sta cambiando, ma non sappiamo dove, come, quando e perché. E il ciclismo, con tutta la sua storia e la sua retorica vive perfettamente il suo incomprensibile futuro. Pantani tornerà a correre? Guariniello e Giardina lo lasceranno in pace? E Soprani e Spinosa che intenzioni avranno? Molti gli interrogativi, troppe sono le risposte che non riusciamo a darci e a darvi, tanta e tale è la confusione. Forse è il caso di fare un passo indietro e riprendere il cammino con calma: senza farsi tante domande. Se non altro per non avere brutte risposte.

Grandi Giri. Non è un mistero: con l’Unione Ciclistica Internazionale abbiamo un ottimo rapporto di collaborazione, anche se non sempre siamo in sintonia con il grande governo centrale del ciclismo mondiale. Le innumerevoli limitazioni introdotte dall’UCI nella progettazione e costruzione della bicicletta, ad esempio, non ci piacciono assolutamente e continueremo a non comprendere le ragioni di un provvedimento che va a penalizzare e limitare la creatività delle aziende. E men che meno ci sembra una buona idea quella di ridurre la durata dei Grandi Giri. Il 2 dicembre scorso, in un commento di prima pagina, il direttore de La Gazzetta dello Sport Candido Cannavò è sceso in campo con un intervento molto chiaro e per quanto ci riguarda condivisibile dal primo all’ultimo rigo. «Se esiste un problema di alleggerire i tre colossi del ciclismo, per attenuare la fatica dei corridori, ci sono altre vie: un secondo giorno di riposo, una riduzione del chilometraggio totale e via di seguito. Se ne può sempre parlare. Ma la via maestra, caro presidente Verbruggen, è un’altra: selezionare le corse, eliminare le patacche, fare un calendario basato sulla qualità». Come non essere d’accordo? Presidente Verbruggen, non cada in errore. I Grandi Giri sono patrimonio storico del ciclismo. Sono monumenti che possono essere restaurati ma non snaturati. Ve lo immaginate il Colosseo ristrutturato e magari un tantino ridotto per guadagnare spazio e fare posto a un parcheggio? È impensabile. Appunto.

Chiaro, chiarissimo, quasi oscuro. In attesa di rivederlo finalmente con il numero sulla schiena, Marco Pantani prosegue le sue esternazioni. Poche parole, che invece di chiarire la sua posizione rendono tutto più oscuro in questo impasto di verità e sospetti. Ecco uno stralcio del Pantani-pensiero raccolto da Nino Minoliti su La Gazzetta dello Sport del 9 dicembre: «... nessuno si prende la colpa di quello che è successo. Eppure qualcuno ha colpe. Invece è finita che le colpe le ho prese tutte io. Così, anche se ho pagato tutto quello che dovevo, mi rimane dentro l’amarezza. Ho pagato, ma non era tutta colpa mia... ». Insomma, non tutta ma un pochino di colpa ce l’ha avuta. E dire che all’inizio aveva parlato di complotto, di macchinette mal regolate e di sangue da verificare dopo un accurato esame del DNA. Adesso, a distanza di tempo, ammette un pizzico di colpa. E, sempre a Minoliti, aggiunge: «Ho paura di ritrovarmi ancora vittima di un sistema sbagliato, perché tante cose dovevano cambiare e invece non è cambiato ancora niente. Ho paura di essere sottoposto a violenze ingiuste. ... Io non sono un santo, ma alla fine l’unico a finire nel fango sono stato io. E nemmeno per una questione di doping». Non è un santo ma la questione non riguarda il doping... E come è possibile? L’unico a pagare è stato lui ma avrebbe dovuto pagare anche qualcun altro... E chi? Lasciamo perdere, noi a Marco vogliamo troppo bene, e soprattutto lo amiamo per quello che ha saputo fare e saprà fare in bicicletta. È quello il Pantani che vogliamo rivedere. Del Pantani-pensiero non sappiamo che farcene. Anche perché fatichiamo a capire.

Così vicini, così lontani. In questi ultimi mesi ho parlato spessissimo di Marco Pantani con molti suoi compagni di «viaggio», che dal giorno di Madonna di Campiglio, si sono ritirati in un riserbo strettissimo. Pantani, non l’ha mai nascosto, questo atteggiamento non l’ha di certo gradito. «Mi hanno lasciato solo dopo tutto quello che ho fatto per il gruppo... », ebbe a dire. Oggi, però, sono moltissimi quelli che pensano che Marco abbia già pagato abbastanza e che non è giusto che sia sempre e costantemente preso di mira. Gotti, Bortolami, Bartoli, Cipollini e via elencando sono tutti solidali con lui, ma non fanno nulla per farglielo sapere. Basterebbe un colpo di telefono, un fax, una e-mail, una lettera per farlo sentire nuovamente «con» il gruppo, e non semplicemente «in» gruppo.

Sudditanza psicologica. Gli arbitri vivono una sorta di sudditanza psicologica nei confronti della Juventus: questo in sintesi la conclusione di un giudice della Repubblica. Anche nel ciclismo c’è chi vive una sorta di sudditanza psicologica. È il caso di Hein Verbruggen, il presidentissimo del ciclismo mondiale il quale, quando sente parlare Ceruti, non può far altro che pendere dalla sue labbra... Cercando almeno di comprenderne il labiale.

Pier Augusto Stagi
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