Codice etico, codice stradale, codice penale
di Cristiano Gatti
Un giorno bisognerebbe ricapitolare tutta la mole di norme, di procedure, di cavilli che il ciclismo ha partorito in questi ultimi anni per ripulirsi dal doping. Siamo tranquillamente a livelli da overdose. Con un solo risultato concreto: lo sferragliare di cervelli ha prodotto un megablitz al Giro d’Italia e ha condotto mezzo gruppo negli uffici giudiziari. Complimenti a tutti: la prossima volta, se non pensiamo, forse si salva qualcosa.
Eppure, nonostante questa lunga storia di chiacchiere inutili, abbiamo deciso che bisognava sfornare ancora qualcosa. Ma sì, un bel codice etico. Cioè una astrusa serie di buoni propositi che una persona con la coscienza a posto non sente il minimo dovere di enunciare. E che chi non ha la coscienza a posto liquiderà facendoci tranquillamente la pipì sopra. Sarà un caso, sarà una coincidenza disgraziata, ma poche ore dopo che Pantani aveva annunciato al mondo la necessità di questo codice, una pattuglia della stradale sorprendeva il suddetto a duecento orari. Ovviamente non in bici. Forse è impietoso, anzi lo è, ma io pongo e mi pongo una domanda: come si può sperare che i ciclisti osservino un astruso e teorico codice etico, quando nemmeno rispettano un banalissimo codice stradale? Come si può realisticamente sperare nella volontaria osservanza di un documento astratto, che non prevede la minima sanzione, quando non rispettano nemmeno le severe norme di un regolamento costellato da pene e punizioni?
Dice: mica sono tutti come Pantani, che quando sale in macchina diventa un Pirata. Vero. Ma è il discorso generale che va affrontato: ridicolo, anzi patetico, pensare che i ciclisti osservino volontariamente il codice etico, quando già più volte hanno dimostrato che se ne impippano bellamente persino delle squalifiche. Dovremmo forse affidarci all’alto e comprovato rigore morale di Hervé, che dopo tutta la simpatica vicenda Festina vissuta in prima persona, dopo i pianti e i pentimenti, si ripresenta al Giro d’Italia cadendo subito ai primi controlli? Ma davvero noi dovremmo essere così tonti dal pensare che questa brava gente, dopo tante prove di disonestà e di menzogna, improvvisamente diventi savia e retta per rinunciare volontariamente alla chimica? Via: fateci ingenui, ma non deficienti. Purtroppo, la cosa peggiore è che non ci fanno deficienti i corridori, il che ci starebbe pure: no, è il presidente del Coni in prima persona, quell’eminente Petrucci che vorrebbe sciacquarsi la coscienza con una bella fermata e un bel codice, prima di rituffarsi tranquillamente nella impotente contemplazione del rituale calcistico, ormai a base di stazioni sfasciate e motorini giù dalla curva (per tutto questo, ovviamente, nessuna esigenza di fermata, nessuna tentazione di «gesto simbolico»: ma faccia il piacere).
Bene ha fatto, anzi benissimo, la Mapei a chiamarsi subito fuori. Chi ha la coscienza a posto, chi si sforza da tempo di ripulire i suoi corridori, non può partecipare alla farsa. Il codice etico non deve cadere dal cielo: il codice etico uno deve darselo nel silenzio della sua coscienza. Perché mai la Mapei, che da tempo si trova tutti contro per le sue scelte drastiche contro il doping, dovrebbe fermarsi e non correre all’estero? Giustamente, non si è fermata e ha corso. Si fermino - per la vergogna - quelli che si sentono chiamati in causa: se ne hanno voglia, se davvero ci credono.
Per fortuna, le speranze di riavere un ciclismo decente non sono affidate ai Petrucci e alle loro trovate demagogiche. Tutto adesso è nelle mani dei giudici e di un altro codice, molto più autorevole e significativo del codice etico alla vaccinara che il Coni ha voluto rifilarci: il codice penale. Come la Francia dimostra, questa è purtroppo l’ultima strada percorribile, l’ultima chanche che resta per convincere dei bari incalliti a cambiare abitudini. Sperare che la capiscano da soli è inutile: servono pene pesanti, nient’altro. Sempre che basti. Quanto al codice etico, verrà buono per mille altri usi: lo consiglio espressamente per avvolgerci il pesce. È la morte sua.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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