C’è una via tutta italiana all’antidoping, finalmente un metodo virile e infallibile per sanare la piaga del secolo. La decisiva intuizione è della Mercatone Uno, squadra di primo piano che deve le sue fortune (e un po’ anche le sue sfortune) a Pantani. In sostanza, il metodo si riassume così: sparare sui tacchini. Che poi è un’applicazione pratica dell’antica teoria opportunista e cinica del «debole coi forti e forte coi deboli».
Il comodo tacchino su cui sparare a pallettoni è Fabiano Fontanelli, l’indifendibile gregario romagnolo che a 36 anni, dopo tutto il tumulto delle ultime stagioni, riesce ancora a farsi trovare l’ematocrito sopra il famoso (e ormai sappiamo anche ridicolo) tetto del cinquanta. Sul corridore ogni commento è persino superfluo, ma sull’operato della sua società qualche parola va ancora spesa. Perché soltanto adesso, nel terzo millennio, dopo aver tollerato in casa propria una lunga e qualificata serie di casi senza battere ciglio, stavolta ha scoperto il gusto dell’intransigenza, infliggendo a Fontanelli la sospensione e il taglio degli stipendi. Davanti a questa linea della fermezza, applicata su un gregario a fine carriera, il tifoso medio si pone giustamente una domanda banalissima: ma dov’è stata la Mercatone Uno fino all’altro ieri?
Dove sia stata la squadra, o meglio, la sua fermezza, è presto detto: girata dall’altra parte. Quando il caso era Pantani, i solerti dirigenti della scuderia romagnola nemmeno si sognavano di essere fermi e intransigenti: caso mai, si agitavano come tarantolati per sostenere la tesi del complotto e per scatenare la giustizia ordinaria, uno storico boomerang che poi è sfociato nel bel risultato di una condanna penale a carico della presunta vittima. Ma questa è un’altra storia. Qui interessa il singolare strabismo disciplinare e morale, che davanti al sospetto di doping divide i tesserati in figli e figliastri. Tutto questo non è per niente bello, perché sa troppo di calcolo e di convenienza. Comodo, troppo comodo fare gli stupendi sui poveri resti di Fontanelli. Non ci si può scoprire indignati fuori tempo massimo. La serietà non è mai gratis: va sempre pagata a caro prezzo.
Una parte epica in questa deprimente messinscena la recita il direttore sportivo Martinelli. Non appena apprende la notizia si profonde in uno sfogo amarissimo su questo ciclismo che non gli appartiene più, su questo sport folle e depravato, con l’unica conclusione possibile di dimissioni liberatrici. Al momento, viene quasi da simpatizzare: magari ce ne ha messa, magari è un po’ lento di riflessi, ma almeno alla fine ci è arrivato pure lui, dopo aver accusato per anni la stampa venduta e leccapiedi di complottare contro la sua squadra. Resta comunque un gesto forte e significativo, in grado di sanare - da solo - troppi anni di silenzio. Ma proprio quando tutti si accingono a dire bravo Martinelli, ecco il pronto annuncio: calma, era solo uno sfogo, è chiaro che resto al mio posto. Uomo tutto d’un pezzo.
A questo punto, viva Fontanelli. Se dev’essere lui, un secondario uomo di fatica, a passare per capro espiatorio, la Mercatone Uno non si aspetti applausi. Non è il caso. Purtroppo, il costume dell’ambiente non cambia. Mentre ci si affanna a pretendere serietà dal calcio, che dopo l’avvio dei controlli si ritrova immerso nel nandrolone fino alle orecchie, il ciclismo continua ad offrire spettacoli e atteggiamenti grotteschi. La linea della fermezza a corrente alternata, un giorno sì e un giorno no, un volto sì e un volto no, è quanto di peggio si possa esibire in questa affannosa ricerca dell’attendibilità perduta. E a poco vale la giustificazione secondo la quale la fermezza scatterebbe soltanto adesso perché adesso la misura è veramente colma. Non cadiamo dal pero. La misura è colma da almeno due anni. Era colma persino quando la Mercatone Uno chiamava i carabinieri per fare luce sui complotti. O il cinquanta d’ematocrito di Fontanelli è più cinquanta degli altri?
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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