Editoriale
Se n’è andato, in punta di piedi, senza clamore e tra lo strazio di chi l’ha cresciuto, conosciuto, amato. Non ce l’ha fatta, Simone. Ha perso, e l’abbiamo perso. L’abbiamo perso noi di tuttoBICI, che nemmeno lo conoscevamo e avevamo imparato da poco a conoscerlo. Simone è morto, all’una e 20 di una notte che era solo all’inizio e di un’alba, ancora lontana, che non sarebbe mai arrivata. In una notte fonda, di un dannatissimo 29 gennaio, Simone Piattelli a soli 22 anni ci ha lasciato. Battuto da una leucemia che soltanto un anno fa aveva fatto capolino con tutta la sua dirompente e spietata realtà nella sua giovane vita. Simone ne aveva preso atto, come se per lui fosse semplicemente l’ennesima tappa da superare, un normalissimo colle di prima categoria da affrontare con cocciuta determinazione, senza mai girarsi indietro. Aveva nel cuore il ciclismo, e per il ciclismo aveva scelto di seguirci. Ci scrisse la prima volta il 20 ottobre, una lettera di una dolcezza infinita. Dolce per noi di tuttoBICI, da lui considerata la rivista del cuore; dolce per come descriveva la propria malattia, ma soprattutto per come ci invitava a fare qualcosa in favore di quanti, come lui, erano stati colpiti da questa spietata malattia. Quasi scusandosi per l’intromissione, per averci disturbato o distolto dai problemi quotidiani di Pantani o di Armstrong, quest’ultimo il suo autentico beniamino.
Fu da quel giorno che tra noi e Simone è nato qualcosa di particolare. Qualcosa di assolutamente vero e profondo. Non passava giorno che non pensassi a lui. Rintracciai anche il suo numero telefonico e riuscii a mettermi in contatto: ci scambiammo gli indirizzi di posta elettronica. A quel tempo era ancora in attesa di sapere quando avrebbe trovato un donatore per il trapianto. La situazione non era certo delle più piacevoli, ma non drammatica, o meglio, così Simone ce l’ha sempre descritta. Aveva già sopportato sette cicli di chemioterapia ma attendeva la chiamata, per continuare a sperare. Incominciammo quasi subito a dialogare via e-mail. Ogni due o tre giorni una letterina, poche righe, per sapere come andava. Simone aveva anche espresso il desiderio di poter commentare la tappa di Montevarchi del prossimo Giro d’Italia che sarebbe passata proprio sulle strade a lui care, quelle di tanti allenamenti. Mi ero messo in contatto con l’avvocato Carmine Castellano, al quale avevo chiesto di avere in anteprima l’altimetria, in modo da poterla girare a Simone, e permettergli di realizzare un piccolo sogno. Subito dopo il trapianto, e dopo aver ricevuto alcune sue e-mail molto confortanti, mi ero illuso di poterlo invitare il 22 marzo prossimo ad una manifestazione benefica organizzata dalla Vittoria di Madone (Bergamo). Poi, dopo l’ennesima e-mail, un silenzio angosciante, pesante e sospetto. Mi attaccai al telefono: a casa suonava sempre libero, il cellulare sempre staccato. Poi, finalmente, una sua e-mail, con la quale si scusava. Sì, si scusava per avermi messo in agitazione, capite? «mi scusi se a casa non c’era nessuno...», mi dava sempre del lei, Simone. Continuarono le nostre corrispondenze, ormai era come lavarsi i denti o pettinarsi: era un gesto quotidiano. Non poteva passare giorno che io non sapessi come andava, come stava. Due righe, per sentirsi più vicino. Faceva bene a lui, ma faceva maledettamente bene anche a me. Un giorno lo chiamai verso mezzogiorno sul cellulare, mi rispose: «Mi può richiamare tra una decina di minuti, mi stanno facendo una trasfusione... ». Ma come, è tornato in ospedale? Poco dopo mi spiegò che era dovuto tornare per una serie di accertamenti, perché aveva una febbriciattola che lo debilitava un pochino, «ma non è niente di particolare: è tutto nella norma. Il trapianto è andato benissimo. Nessun pericolo di rigetto», mi rassicurò. Tirai un lungo sospiro di sollievo. Poi, di nuovo silenzio. Un lungo silenzio, interrotto solo da una telefonata del nostro Paolo che mi informava dell’accaduto. «Pier, Simone è morto». Ero in viaggio, verso San Marino. Pensai a come avrei dovuto dirlo a Bibi, che da sesso debole della redazione, aveva dimostrato ancora una volta di essere la più forte di tutti, decidendo di iscriversi all’ADMO. Pensai a quello che avrebbero provato i suoi genitori, allo strazio di una perdita alla quale non si riesce a dare una spiegazione. Pensai al senso della vita e della morte. Pensai a Simone, che ci aveva creduto, fino alla fine. Pensai ai suoi 22 anni, e ad una vita incompiuta e a tutto quello che avrei voluto dirgli, e che mi sarebbe piaciuto scrivergli. Non conosco il suo volto, non so di che colore avesse gli occhi e i capelli. Ho conosciuto solo i suoi modi garbati e la sua voce. Sì, la sua voce ce l’ho bene impressa nella mente: pacata, dolce, con quel flebile accento di toscanalità che rendeva la sua cadenza gentile e confidenziale. Avrei voluto conoscerlo, per dirgli che la sua sofferenza era servita a qualcosa, ma non c’è stata data la possibilità. Adesso, quando penso a lui mi viene un nodo in gola e un magone che ha la violenza di un pugno che mi affonda la bocca dello stomaco. E poi quel sapore avvilente d’impotenza, che noi uomini abbiamo di fronte alla vita e al suo mistero. Vedo gli occhi di Bibi, e le sue lacrime scorrere. La vedo tormentata e mi ritrovo riflesso nei suoi occhi gonfi di pianto. Cosa possono aver provato i suoi genitori? Cosa dovranno passare ancora se gente come noi, che solo l’ha sfiorato, fa fatica a capire il senso di tutto questo? Può avere senso una vita spezzata a soli 22 anni? La fede aiuta a comprendere, aiuta a proseguire, ma non a capire. Soprattutto nulla ci restituirà Simone, e quanti come lui sono stati strappati alla vita quando essa a loro ha riservato poco, per non dire nulla. Voglio pensare che tuttoBICI oggi ha perso uno dei più adorabili lettori, ma ha acquistato un angelo custode. Voglio pensare che lui sia con noi, perché dentro di noi e di quanti gli hanno voluto e continuano a volergli bene. Vogliamo pensare che queste righe così poco ciclistiche, così poco leggibili, così poco, siano un pessimo esercizio di retorica per il semplice fatto che non vogliono esserlo assolutamente, ma vorrei tanto che riuscissero ad essere un breve momento di riflessione per un amico che, come noi, aveva una malattia più profonda della leucemia: il ciclismo. Vorremmo pensare che nessuno ce ne vorrà se abbiamo usato questo spazio per parlare di un fatto personale che di personale ha tutto e niente. Vorremmo sperare che da oggi, qualche amico più coraggioso di me e forte come Bibi, voglia iscriversi all’ADMO. Vorrei sperare che un giorno anche a me venga un pizzico di coraggio in più. Vorrei sperare che questa piccola lettera, scritta con il cuore, possa essere minimamente di conforto per i genitori di Simone. Vorrei che qui dentro ci fosse tutto quello che avrei voluto dire e non sono riuscito a scrivere, ma che Simone certamente è riuscito a leggere.
Vorrei.
Pier Augusto Stagi
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