Alfredo, Adriano e Telegiggetto
di Cristiano Gatti
Odio la retorica del passato, ma stavolta non posso negarmi il gusto della nostalgia. In questo periodo c’è una strana combinazione di avvenimenti che spinge sui dolci sentieri del ricordo e della malinconia. Ci sono gli ottant’anni di Alfredo Martini e c’è il pensionamento definitivo di Adriano De Zan. Anche se ad entrambi hanno ritagliato un ruolo onorario, coordinatore azzurro Martini, ospite nei dopocorsa De Zan, niente è più come prima. È un mondo che tramonta, è un tempo che se ne va. Una pagina che si gira e che ci lascia tutti un po’ così.
Che Martini abbia ottant’anni è una questione puramente anagrafica. Da un punto di vista sostanziale, il leggendario commissario tecnico resta il più giovane e il più fresco cervello del ciclismo italiano. L’ho conosciuto ormai parecchi anni fa. Da allora, stagione dopo stagione, ho imparato ad amare la sua profondità d’animo, la sua visione ironica della vita, il suo alto senso del rigore. Adesso che lo scopro improvvisamente ottuagenario, francamente non so nemmeno bene quale forma d’auguri riservargli. Alla fine penso che mi limiterò a una personalissima opinione, legata ai miei gusti e ai miei valori: stringendogli la mano, gli dirò che in lui ho trovato un uomo giusto. Non è un’onorificenza ufficiale, è soltanto il più difficile dei traguardi. Tanti uomini sono buoni e generosi: ma essere giusti è molto più difficile. Perché comporta sempre una scelta, un coraggio, una personalità. E anche molte antipatie. Il buono accontenta tutti, il giusto ne scontenta parecchi. Ed è per questo che ce ne sono così pochi. Alfredo è uno dei pochi, un patrimonio che lo sport italiano deve tutelare come specie in via di estinzione. Se non lo tutelerà lo sport italiano, sempre più in mano agli avventurieri senza scrupoli, lo tuteleremo almeno noi, nel nostro piccolo, in un angolo inaccessibile dell’anima, dove si conservano le cose migliori. Non so quanto valga per Alfredo, ma se nell’autunno della vita conta soprattutto la reputazione costruita lungo un’intera esistenza, lui deve sapere che in tanti di noi ne lascia una bellissima.
Poi c’è De Zan, la colonna sonora di quella stagione particolare. Gli anni di Martini e di un ciclismo tutto diverso, né migliore né peggiore dell’attuale, ma certamente diverso. Era la stagione del rapporto umano diretto, senza i filtri della comunicazione gestita e delle relazioni pubbliche da laboratorio. Una stagione dolcissima, fatta di grandi chiacchierate su un marciapiede o in una hall d’albergo, di un caffé nel bar vicino al traguardo in attesa dell’arrivo o di una fetta di salame lungo il percorso. A questa semplicità di rapporti faceva però sempre il paio un grande talento professionale. I Martini e i De Zan, ciascuno nel proprio campo, avevano doti e carisma per esercitare il mestiere ad altissimo livello. In questo senso era una stagione bellissima: perché ciascuno reggeva il ruolo senza bisogno di alcuna finzione. Si andava a braccio, ma che braccio.
Certo i successori non hanno grandi colpe. È difficile arrivare dopo certi personaggi. Ed è ingiusto osservare i volti nuovi con la lente del paragone. Se questo è vero, agli eredi va però imputata una certa superficialità di insediamento: questa gente arriva in certi posti, carichi di gloria e di leggenda, come andasse dal parrucchiere. E gli stessi capi che devono scegliere i sostituti non hanno minimamente presente l’importanza della scelta. Vogliamo fare un esempio più generale, perché non si pensi che ci siano in gioco questioni personali? Prendiamo la Rai. Non è vero che è un immane calderone di lazzaroni e di raccomandati. La Rai ha professionalità altissime, come i De Laurentis, come i giovani Mazzocchi e Civoli. Eppure alla fine sbucano fuori i Varriale, i Nesti e i Cerqueti. Perché questo? Ma perché chi decide, anziché considerare la delicatezza delle scelte, preferisce privilegiare il rapporto personale, l’amicizia, lo scambio di favori, il peso sindacale e quant’altro italianamente ci contraddistingue. Così, a forza di svilire, ci apprestiamo a passare dalla stagione di Tele-De Zan a quella di Telegiggetto, con Sgarbozza sugli scudi a spiegarci il ciclismo «dimo-famo-vedemo».
Ci sorbiremo anche il futuro. Non c’è problema. Se ne sono viste tante, vedremo tranquillamente anche la nuova Telegiggetto dell’innovativo direttore Giovanni Bruno. Questo però non ci impedirà di tenere sempre in un’icona preziosa la bella stagione degli anni Ottanta e Novanta, quando il ciclismo era un po’ diverso. Anch’esso pieno di difetti, ma almeno senza tirarsela.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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