Tra le tante e non tutte meritate dicerie sul malcostume dei giornali, ce n’è una vera e innegabile: quella della prassi selvaggia a suon di titoloni quando qualcuno finisce sotto inchiesta, e a seguire dei titolini mignon quando il suddetto viene eventualmente assolto o scagionato. Ebbene: grazie alla nobile linea editoriale di tuttoBICI, il mensile magari un po’ rompiballe, però sempre in buonafede, sono qui per sottrarmi pubblicamente a questo ignobile andazzo. Se a qualcuno interessa, voglio dedicare lo spazio riservato tempo fa a una dura censura personale anche al lieto evento giudiziario della totale riabilitazione. Soggetto e titolare della storia, Antonio Fusi.
Dopo lunga e travagliata odissea, l’ex cittì della nazionale azzurra, ora tornato a fare il cittì azzurrino dei ragazzi, esce dalla famosa inchiesta di Brescia con la patente di illibatezza: accusato a suo tempo di aver trafficato in fiale di doping, non è stato nemmeno rinviato a giudizio. Libero e immacolato prima ancora di andare a processo, secondo la decisione suprema e solenne della magistratura italiana. Diciamolo: è un bel finale. Magari Fusi avrebbe qualcosa da ridire, sostenendo a ragione che lui ci ha rimesso due anni di fegato e di faccia, girando per il Paese con un’imbarazzante patente appiccicata in fronte (in Italia, com’è noto, basta un avviso di garanzia per essere delinquenti ufficiali). Ma purtroppo non è questa la sede per discutere ancora una volta sui risvolti tribali delle nostre vicende giudiziarie. A me, per lo meno, interessa qui dare il giusto risalto a questa soluzione positiva del caso, dopo averne fatto per tanti articoli una pura e semplice questione di principio.
Chi ha lo stomaco di seguire queste faccende sa benissimo che per l’inchiesta di Brescia ho più volte chiesto la sospensione di Fusi dall’incarico di cittì azzurro (quando lo era). All’inizio l’avevo chiesto a lui, perché volontariamente si facesse da parte in attesa dei chiarimenti. Poi, visto che lui non si muoveva di un millimetro, l’ho più volte chiesto alla federazione. Sicuramente molti avranno pensato che avessi qualcosa di personale con Fusi: che so, una fidanzata rubata, vecchi debiti di gioco, un pesce d’aprile finito male. Invece, niente di tutto questo: a livello personale, caso mai, non ci risultiamo simpaticissimi. Ma non c’entra proprio nulla. Per quanto mi riguarda, riesco ancora benissimo a distinguere le simpatie dalle questioni di principio. E di queste ultime, molto più serie, difatti mi occupavo: a costo di passare per verginella ingenua, mi ostinavo a credere che la nazionale azzurra, fiore all’occhiello e biglietto da visita di un intero Paese, non potesse avere in ammiraglia un inquisito per questioni di doping. E sottolineo per questioni di doping, cioè per questioni strettamente e gravemente connesse all’esercizio delle funzioni (se Fusi fosse finito sotto inchiesta per abusi edilizi, non avrei nemmeno cominciato a menarla). In tanti, durante la lunga querelle, mi hanno preso da parte con fare gandhiano, apostrofandomi con frasi del tipo «su, non essere così cattivo, in fondo non ha ammazzato nessuno». Sono gli stessi, ovviamente, che mi avvicinano quando trovo vergognosa la presenza di Fondriest sul palco Rai, un costruttore di biciclette pagato con soldi pubblici per commentare le gare dei suoi corridori contro i corridori della concorrenza (conflitto di interessi, dice niente questa parola?). Si avvicinano, sempre con quel fare da curati dei miei stivali, e mettono su il disco: «Via, non essere così cattivo, in fondo non ha ammazzato nessuno».
Posso dirlo? Mi hanno rotto i santissimi, questi loschi caschi blu a gettone. Sono gli stessi maneggioni, senza etica e senza scrupoli, che a forza di passare sopra tutto, di non cogliere mai lo stridore di certe situazioni, hanno portato il ciclismo - lo sport più nobile di tutti - ai livelli di abbruttimento che conosciamo. Ma sì, sono loro, i leggiadri filosofi dell’«in fondo non ha ammazzato nessuno». Nessuno ammazza mai nessuno. Così, guarda caso, andiamo tutti in giro con la simpatica etichetta dei drogati, guardati a vista come lestofandi e tagliagola, senza neppure avere più i titoli per ribattere qualcosa: anche quando prendono un adolescente con la cocaina, siamo lì a dire che è una ragazzata. E caso mai il fetente è chi racconta la storia. Un ambiente di faciloni impuniti, ecco che cosa siamo diventati. Però attenzione: non stupiamoci poi se per esempio gli sponsor più seri cominciano ad avvertire un po’ di voltastomaco al solo pensiero di immischiarsi con questa brutta gente che siamo noi. Vedo troppo nero? Beato chi vede rosa. Resta il fatto che se Di Luca o Basso non diventano Pantani, o se Simoni non vince il Tour, gli indici di gradimento restano stabili all’ingiù. E non li rialziamo nemmeno col Viagra.
Detto questo, chiedo scusa per averla presa larga: ma tanto dovevo ancora una volta al chiarimento della questione. Ora però torno precipitosamente e drasticamente al cospetto di Fusi, per una pura questione d’onore: gli auguro che tutti siano lieti almeno quanto me di questa soluzione del caso, perché non c’è niente di più bello e salutare dello scoprire completamente innocente un uomo sospettato per lungo tempo. Soprattutto, gli auguro una cosa: che tutti quelli così solerti nel chiedermi di non essere così cattivo, perché in fondo non aveva ammazzato nessuno, adesso non continuino a considerarlo un mezzo inquisito. Glielo auguro davvero, anche se ho il forte sospetto - conoscendo certi costumi - che invece nessuno gli leverà più di dosso l’etichetta. L'umanità è questa. Per me, in ogni caso, la questione è chiusissima. Se mai si fosse autosospeso, Antonio Fusi potrebbe tranquillamente tornare alla guida dell'ammiraglia azzurra, senza ombre e senza macchie. Ovviamente non ci tornerà, ma per altri motivi. Chiamiamoli motivi tecnici. Dei quali, anche a costo di ripassare per cattivo, mi rallegro sfacciatamente. Ma questo è tutto un altro discorso.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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