Signor marziano, benvenuto sul pianeta Terra. Ho già capito che certe parole del nostro lessico le suonano un po’ indigeste. Incartano la lingua a noialtri, figuriamoci a lei che non è di queste zone. Tranquillo, la colpa è solo nostra, che amiamo coniare sempre nuovi termini, il più possibile orrendi.
Mi chiede della globalizzazione. Bravo, bella domanda. Tutti qui ne parlano, anche a ragion veduta, perché è a tutti gli effetti il fenomeno più rivoluzionario e più sconvolgente dell’era moderna. Ma pochi, tutto sommato, hanno ben presente che cosa comporti, che cosa significhi, quali effetti pratici provochi nella vita di tutti i giorni. Certo, tutti mangiano le stesse cose, tutti vestono le stesse cose, tutti vendono, comprano, consumano le stesse cose. Così che una strada di Atlanta e di Pechino, di Oslo e di Brisbane, ovunque vadano sempre più somigliandosi in tutto e per tutto, fino al punto estremo del grande processo: l’omologazione.
Ma questo, signor marziano, è - diciamo così - l’effetto sociale della globalizzazione. Entrando nelle singole case del nostro pianeta, ciascuno è in grado di sperimentarlo e di spiegarlo. Eppure c’è dell’altro. Qualcosa che sfugge alla visione generale. Ma che è ancora più incisivo e, soprattutto, definitivamente irreversibile. Per aiutarla a capire meglio, le faccio l’esempio di un settore che mi è molto caro, il ciclismo.
Succede che la globalizzazione abbia come prima condizione un mercato aperto, sovranazionale, senza confini. Che copra l’intero pianeta. Cosa osserviamo, in questa enorme piazza? Osserviamo che paesi - continenti - una volta lontanissimi e irraggiungibili, fuori dall’orbita tradizionale, improvvisamente entrino a far parte del nostro patrimonio economico. Come opportunità, come alternativa. È come se al nostro solito negozio affiancassimo altri locali, più grandi e più vari. Questo ha un grande beneficio, perché allarga quasi infinitamente le possibilità di fare affari. Più clienti, più investitori, più capitali, più guadagni. Ma c’è anche un ma. C’è anche un però.
Negli altri mercati non si trovano solo acquirenti dei nostri prodotti. Ci sono anche imprenditori che vogliono comprare le nostre idee, la nostra conoscenza, le nostre aziende. Vogliono fare quello che facciamo noi. Magari anche meglio. Così, la faccenda si complica. Oltre ai benefici, si presenta anche un certo conto da pagare.
Se lei adesso comincerà a girare l’Italia, signor marziano, incontrerà strani tipi. Sono corridori ciclisti ancora in ottimo stato, qualcuno dalla provata esperienza, altri ancora in piena crescita, ma tutti ugualmente inabissati nello stesso dramma: non trovano più un posto. Non ci sono squadre che possano o vogliano ingaggiarli. È un complotto contro di loro? Ma nemmeno per sogno. Il vero complotto l’ha ordito la globalizzazione. È successo che lo stesso ciclismo abbia dovuto - anche voluto - seguire la tendenza generale, finendo per aprirsi a tutti i mercati del mondo. La conseguenza è elementare: ci sono corridori di aree oscure e arretrate che comunque totalizzano punti validi per arricchire il patrimonio di un team. Magari, in una corsa uno contro uno, questi pionieri di altri mondi non starebbero neanche alla ruota dei nostri disoccupati, ma non conta proprio niente: il loro bagaglio di punti, capitalizzato in zone di ciclismo primordiale, vale tantissimo per le squadre più evolute. E c’è pure dell’altro.
C’è che i grandi colossi di altri continenti, arrivati nel ciclismo con denaro ed entusiasmo freschissimi, abbiano legittime pretese geopolitiche. In altre parole: se la Cina spende un sacco di soldi per una squadra italiana, è normale e scontato che chieda di inserire in quella squadra qualche corridore cinese. È giusto che lo faccia. Chiunque lo farebbe. Non c’è proprio niente di scandaloso. Il problema è che questa evoluzione naturale lascia sul campo le sue vittime innocenti: per un cinese o un coreano che trova posto, c’è un italiano che lo perde. È aritmetica. Spietata, ma semplice aritmetica.
Signor marziano, adesso che si è chiarito un po’ le idee, può affrontare con maggior disinvoltura il nostro strano mondo. Incontrerà per strada molti di questi strani tipi, che a venticinque o a trent’anni devono inventarsi improvvisamente un nuovo mestiere, quando ancora erano convinti di poter esercitare decorosamente quello di ciclista. Sono tristi e depressi. Tirano un sacco di conclusioni amare sull’ambiente e sulle sue regole disumane. Qualcuno addirittura si dichiara disposto a pagare, a mezzo sponsor, un posto in squadra. Ma la strada è segnata. Non c’è più posto per tutti. La globalizzazione ha le sue regole e i suoi costi sociali. Il ciclista disoccupato, malgrado il suo valore ancora intatto, è una figura nuova, malinconica, se vogliamo ingiusta. Ma sarà la regola, creda a me: ci piaccia o non ci piaccia, sarà la regola.
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