Gatti & Misfatti
Più Tour che World

di Cristiano Gatti

Questo genere di faccende è sempre noioso e seccante, perché per lo­ro natura le guerre - sotterranee e di superficie - della po­litica si portano sempre dietro molta nebbia, molto fumo, molto grigio. È fatica, stare dietro alle singole mosse e ai giochi acrobatici delle parti in causa. Si perde il filo, qualcuno ci perde il sonno, ma so­stanzialmente si vive l’evoluzione della storia con fastidio e distacco. Ne fa­remmo volentieri a meno. Sal­vo però scoprire che anche buttandole fuori dalla porta, le vicende politiche ci rientrano puntualmente dalla finestra. Perché sen­za accorgerci finiscono per cambiare - anche radicalmente - la nostra tranquilla vita quotidiana. Le nostre stesse certezze.

È per questo che il direttore Stagi, ben sapendo di rifilare martellate sugli alluci ai suoi lettori, non molla comunque un millimetro sulla famosa questione della Grande Riforma. Lui è sicuramente il nu­mero uno in questo genere di faccende: non conosco altri, nel mondo giornalistico, dotati di pari pazienza e di uguale sop­portazione. Certe volte gli do del Tafazzi, tanto ama sobbarcarsi certe prove di fatica, che stroncherebbero non soltanto le persone normali, ma anche dei ro­busti tori andalusi. Ognuno pe­rò ha le sue virtù, e Stagi - posso assicurarlo - ha quella di studiare fino all’esaurimento anche le materie e le documentazioni più disumane. Dev’essere che ha pure un fon­do di inguaribile autolesionismo…

E comunque, dato a Ce­sa­re quel che è di Cesare e al direttore quel che gli spetta, consapevole che posso fare il lecchino fino all’esaurimento senza ottenere un euro d’aumento, vengo al sodo. Del­la Grande Riforma ho ben chiara soltanto una cosa (forse questa l’ho compresa come e magari più dello stesso Stagi): non è il normale studio di un settore per crescere e migliorare, ma un brutale braccio di ferro tra Uci e Aso (cioè Tour) al fine di stabilire una volta per tutte chi comanda di più. Eb­be­ne, da come s’è messa la questione, credo che chiunque pos­sa arrivare alla medesima conclusione: comanda più la so­cietà privata (Aso-Tour) dell’istituzione politica (Uci). Che poi sia la stessa Federazione mon­diale ad annunciare il Gran­de Accordo e la Grande Pace, con­ferma ancora di più questa verità: chi ha vinto davvero (Tour) è ben felice di la­sciare a chi ha piegato il capino al­meno l’onore di uscirne bene, come se fosse una conquista sua. Nessun teatrino e nessuna cerimonia ipocrita possono na­scondere però la cruda realtà dei fatti: per non mandare a monte tutto quanto, per tenere l’Aso e il suo impero dentro il World Tour, l’Uci ha dovuto portare il World Tour dentro l’Aso. Una resa senza condizioni. Altri­men­ti a livello ciclistico la Francia avrebbe fatto come il Regno Unito con l’Europa. Una Francexit.

Devo dire che un aspetto positivo c’è: con la ga­lassia Tour dentro, il World Tour (l’umorismo involontario sta anche nella definizione) resta una cosa se­ria. In caso contrario, avrem­mo una farsetta. Lascio poi al sommo Stagi seguire passo passo le prossime tappe della confusa evoluzione, ancora tutta da definire. Io aggiungo soltanto un enorme timore, molto solidale: per il destino delle squadre medio-piccole (non parlo delle cialtrone). Mi sembra che non si prepari un grande futuro, per loro. Le vedo come vasi di coccio sotto la pressa, con pochissime possi­bilità di uscirne integre. Pen­so più che altro al problema - già di suo da mal di testa - del reperimento sponsor. Do­ve li trovi imprenditori pronti a scucire denaro per squa­dre che corrono poco e fuo­ri dal mondo, male e lontane dai ri­flettori? Forse i team ma­nager di queste realtà hanno già le contromisure in tasca. Glie­lo auguro di vero cuore. Sul se­rio. Perché hanno un ruo­lo e una funzione fondamentali, di reclutamento e di svezzamento dei futuri professionisti. Io al posto loro sa­rei però piuttosto pessimista. Sotto Na­tale, convincilo tu il cappone a non fare il catastrofista.
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