Come una Fiat delle due ruote, il ciclismo apre la nuova stagione piangendo sul suo personalissimo stato di crisi. Cinquanta, ottanta, centotrenta, milleseicento disoccupati: gli inventari e le stime sono riportati con toni angoscianti, quasi che la società civile in qualche modo debba sentirsi in colpa per tanti bravi corridori rimasti senza contratto. Bene, introduco subito il tema: a costo di passare per cinico e reazionario, proclamo qui solennemente il più alto senso del mio giubilo per questo presunto stato di crisi. La ragione è semplicissima: se Dio vuole, una mezza moltitudine di brocchi viene finalmente riavviata alla pastorizia, da dove colpevolmente qualcuno l’aveva prelevata.
Piccola premessa, che peraltro dovrebbe risultare superflua: non parlo delle eccezioni, delle vittime innocenti che immeritatamente sono rimaste fuori dal gruppo. Ma come scrisse un grande, ragionando sulle eccezioni non si ragiona mai. Parlo dei grossi numeri. E allora, ecco i motivi del giubilo: a quanto pare, non saremo più costretti a chiederci come diavolo questo o quel tale sia riuscito a esercitare il mestiere del ciclista. Parlo di questa brava gente che vegeta per due, tre, quattro stagioni senza lasciare traccia di sè, non dico a livello vittoria, ma tanto meno come aiutante di qualche campione. Di quelli, come direbbe l’arguto Bruno Reverberi, che prendono lo stipendio per portare in giro la bicicletta. Chiedo: quale titolo hanno, costoro, per fare del professionismo, più di quanto almeno non ne abbia io o qualunque altro appassionato che la domenica si sfianca sulle salite della sua provincia? Perché mai, dove sta scritto, che chiunque passi di categoria debba avere il posto garantito?
Eppure, con toni da Cgil in stato di mobilitazione, leggo sull’autorevolissimo Accpi News, notiziario dell’associazione corridori, lo straziante proclama: «Si profila per molti lo spettro di un prematuro addio alle competizioni». Teneri, loro dell’Assocorridori: non si sono mai scandalizzati quando tanti figli di papà pagavano per accasarsi, portando via il posto a corridori meno figli di, ma sicuramente più dotati. Adesso, improvvisamente, si stracciano le vesti perché le normali regole dell’economia mandano a casa gli abusivi del gruppo. Che dire: un’altra occasione persa. Purtroppo, bisogna rinviare ulteriormente l’appuntamento con la prima battaglia intelligente dell’Assocorridori, sottolineando come l’attesa si stia facendo lunghissima (ogni tanto mi riviene in mente quella, storica, della tessera-onorificenza a Paolo Brosio come numero uno dei benemeriti del ciclismo: esilarante).
Parlando di cose serie, per questo stato di crisi il ciclismo dovrebbe comunque ringraziare tutti i suoi santi, da San Fausto a San Gino, se il prezzo pagato è così esiguo. In definitiva, le squadre sono ancora molte, pure troppe. Calano gli sponsor? Con quello che hanno subito negli ultimi anni, è un miracolo se restano in molti. Calano gli stipendi dei corridori? Quelli che guadagnavano poco continuano a guadagnare poco: a loro si sono aggiunte le mezze figure troppo a lungo sopravvalutate, solo perché capitate miracolosamente in un periodo di vacche grasse. Quanto ai campioni veri, stiamo e stiano pure tranquilli: continueranno a guadagnare bene, milione più, milione meno.
Anziché esibirsi in pubblici piagnistei, il ciclismo farebbe meglio a sfruttare questa congiuntura per qualche sana riflessione. Magari un po’ più adulta di tanti convegni fatui e nostalgici, fumosi e autocelebrativi, che si propongono qua e là nella stagione del pandoro. Parliamoci chiaro: per mangiarsi l’aragosta a spese di uno sponsor babbeo non è necessario inventarsi gli stati generali del ciclismo: basta trovarsi al ristorante. È ora di ripartire in modo più sobrio e più equo, riscoprendo il sano gusto del lavoro e del merito. Guarda caso, è tipico dei cicli economici: nei periodi di crisi, i migliori si rafforzano. Sempre. E comunque nessuno dimentichi una cosa fondamentale: se ci ritroviamo in questa situazione, la colpa è solo nostra. Sì, cari direttori sportivi: pure vostra. Di voi che ve la prendete con i corridori per la stagione del doping, di voi che ve la prendete con gli sponsor se vi mollano schifati, di voi che ve la prendete con la stampa perché parla solo di doping, di voi che non avete ancora spiegato dov’eravate mentre i corridori - altro che vittime - mandavano tutto all’aria. Come i dirigenti della Fiat pagano dieci anni di accidia, periodo durante il quale non hanno sfornato una sola macchina degna del suo nome, quelli del ciclismo pagano una lunga stagione di faciloneria, di bassa furbizia, di incosciente opportunismo. Tutti quanti a fare gli struzzi, tutti quanti dimenticando che la vita non dimentica nulla: prima o poi, si passa alla cassa per il conto.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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