Mi è successo poco prima di partire per il Giro. Una mattina, capita a casa mia l’assicuratore per l’annuale obolo sulle polizze domestiche. Come va, come non va, mentre firmo l’assegno - forse per sdrammatizzare il momento ad alta tensione - mi butta lì la domanda che butta tutti gli anni: «Va ancora al Giro?». E io: «Sì». Stavolta, però, aggiunge una domanda che fa male come il pugno del ko: «Ma come fa a crederci ancora?». E chiude: «A me piaceva molto, sin dai tempi studenteschi, piazzarmi davanti alla televisione per gli arrivi. Ci stavo delle ore, quasi incantato. E ricordo che quando il Giro finiva, per alcuni giorni restavo un po’ così. Mi mancava qualcosa. Adesso però non guardo più: ogni volta che uno fa l'impresa, penso subito sia finta...».
Non credo che una cosa del genere sia successa soltanto a me. Credo anzi che in questi anni ultimi sia successo a chiunque si interessi di ciclismo. La domanda del ko: come si fa a crederci ancora? Sul momento, al mio assicuratore avrei voluto rispondere che io, nella vita, cerco di credere a tutti fino a prova contraria. Volevo dirgli che credo persino a lui, benchè la sua arte sia quella di scucirmi denaro con promesse astruse, di cui nessuna assicurazione mai risponderà. Volevo, ma non ho detto nulla. Me la sono cavata con una vile scorciatoia: «Perchè, lei invece crede alle imprese del calcio?».
Ovviamente è un contropiede ridicolo, anche se molto usato nel nostro ambiente. È ridicolo perché comunque non sposta di una virgola il problema: e cioè la profonda crisi di credibilità del ciclismo. Inutile specificare che parlo del ciclismo agonistico, delle corse, perché il ciclismo in quanto hobby, pratica sportiva, passatempo, svago e passione sta letteralmente scoppiando di salute. Parlerei proprio di boom: non si fa che incontrare gente in cerca di biciclette per intrapresa attività sul campo. E non mi vengano a dire che li incontro solo io. Basta guardarsi in giro, la domenica, lungo valli e campagne d’Italia, per rendersi conto di come la bicicletta, da noi, sia curiosamente molto più praticata che parlata, in netto contrasto coi costumi sportivi del Paese.
No, il tunnel nero l’hanno imbucato soltanto loro, i mitizzati eroi della pedivella: storicamente considerati dei fachiri, adesso si ritrovano degradati al rango di volgari truffatori. Diciamo dei Wanni Marchi in mutande lunghe. Tutte le fughe, le vittorie, i trionfi sembrano improvvisamente smascherati, come se per anni questi imbonitori in bici avessero piazzato presso il gentile pubblico dei miracoli sportivi che in realtà erano pietose patacche. Giusto così? No che non è giusto. Perché la fatica è fatica, il sacrificio è sacrificio, il rischio è rischio. Doping o non doping. Ma questo è il risultato che dobbiamo incassare dopo le ultime stagioni vissute tra gendarmerie in assetto da combattimento e salti dalla finestra con le siringhe in mano.
Sul fenomeno della nefasta disillusione collettiva ho un’idea. Si chiama Marco Pantani. Suo, soltanto suo il merito di aver attirato negli anni Novanta le grandi masse di pubblico ancora a digiuno di ciclismo. Ma sua, soltanto sua, la colpa di averle precocemente messe in fuga. È doloroso dirlo, ma è al suo nome, al suo mito, alla sua leggenda che si legano i successi strepitosi di popolarità e le susseguenti (purtroppo perduranti) crisi depressive di disincanto. Tanta gente si è avvicinata alla bicicletta per i suoi Tourmalet e i suoi Mortiroli, altrettanta se ne è andata per le sue Madonne di Campiglio. Poi, a seguire, tutti quanti gli altri: chi più chi meno, da luogotenente o da oscuro gregario, ciascuno ha posto il suo personalissimo mattoncino al mausoleo dove rischiamo di seppellire l’intero movimento.
Che fare? Potrebbero risolvere tutto proprio loro, i ciclisti. Se vogliono che gli assicuratori, ma anche le pettinatrici di Albinea, non pongano più domande del tipo «ma come si fa a crederci ancora?», possono rimettersi in riga al più presto. Altre componenti - magistratura, Coni - non si fanno pregare: stanno falciando vittime con numeri a doppia cifra. Vogliamo continuare così? Decidano loro. So benissimo, siccome qui nessuno è nato ieri sera, che tanti corridori contemporanei non si pongono il problema del futuro: pensano soltanto ai loro cinque-sei anni d’oro, un bel contratto miliardario ed è come fare Bingo per sempre, al diavolo le prospettive di questo benedetto ambiente. Forse è cinico dirlo, ma credo proprio che i meno preoccupati del ciclismo futuro siano i ciclisti di oggi: se dopo di loro viene giù tutto, chissenefrega. Per questo, lo dico con malinconia, non bisogna contare sulla loro solidarietà. Devono fare gli altri, dobbiamo fare noi tutti che questa disciplina coltiviamo senza interessi sottobanco. In cui continuiamo a credere, caro il mio assicuratore. Come spiegava una notizia d’agenzia di qualche tempo fa, da uno studio sulle potenzialità degli eventi sportivi (firmato StageUp e Tns Abacus) risulta che il Giro interessa 18 milioni di italiani. Viene dopo serie A (29,5 milioni), Formula 1 (28,8) e Motomondiale (20). Come si vede, non siamo così pochi.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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