Ame quest’angoscia annuale delle piccole squadre in attesa di sapere se saranno ammesse o no al Giro d’Italia - o al Tour de France - mette una profonda mestizia. A dirla tutta, non fatico a immedesimarmi in questi sponsor, in questi tecnici, in questi atleti che tutte le sere vanno a letto con l’ansia di conoscere il proprio futuro, sapendo che un sì o un no di Vegni & C. può cambiare il loro destino. Detto tra parentesi, non credo siano molto sereni e tranquilli neppure Vegni & C., perché certamente si rendono conto del loro potere di vita e di morte (in senso relativo, capiamoci), sapendo benissimo che qualunque scelta finirà per addolorare qualcuno. Ad ogni buon conto è su quelle piccole squadre, che già faticano dannatamente a mettere assieme un budget, a darsi un’organizzata, a stipendiare padri di famiglia, che comunque si abbatte come un ciclone la mannaia degli inviti e delle esclusioni. Da quel sì e da quel no dipende l’intera stagione, come minimo. Come massimo, dipende l’esistenza stessa di un progetto.
Non mi addentrerò nemmeno di un millimetro nel terreno minato delle recenti decisioni. Non perché sia particolarmente codardo e ruffiano: se c’è da scegliere, io scelgo. Ma siccome in questo caso tocca ad altri, parto dal presupposto che avranno avuto mille ragioni e mille riflessioni per arrivare alla loro decisione. Ciascuno invita chi vuole, a casa propria. E chi sono io per dire che questo meritava più di quest’altro? Sappiamo tutti chi non merita proprio nulla, ma quando due squadre hanno tanti pregi e tanti difetti più o meno equivalenti, è veramente dura stabilire chi meriti di più e chi di meno. Resta soltanto l’evidenza dei fatti: al Giro correrranno squadre che ne farebbero volentieri a meno, che partono perché proprio non ne possono fare a meno, che gareggiano con lo stesso entusiasmo che sentono recandosi dal dentista, mentre resteranno a casa squadre che venderebbero l’anima al demonio per poterci almeno provare.
È un criterio sgradevole e ambiguo, ma è l’unico criterio che ci resta dopo anni di riforme: gli squadroni, anche di malavoglia, hanno diritto a giocare sempre, le squadrette hanno diritto solo se garba all’organizzatore. Punto. L’idea di un’allegra e totale libertà non va considerata romanticamente come la migliore. Lo è solo in apparenza. Ma bisogna stare molto attenti. Prendiamo il Giro: se non ci fossero al via gli squadroni per diritto acquisito - cioè per obbligo -, non so quanti squadroni di questi tempi verrebbero alla corsa rosa. Rischieremmo seriamente di avere i Reverberi e i Savio come massimo prestigio del gruppo: il che non toglie nulla a questi valorosi team nostri, ma spiega bene il concetto.
Ci sono pro e contro. Nel ramo inviti, resta soprattutto l’antipatica idea che poi alla fine non valgano oggettivi criteri di merito e di valore, ma altri fattori sommersi, come vecchi dispetti, eterne antipatie, per non dire altro. È il limite del sistema, nessuno può negarlo. E comunque, anche in caso di una scelta serena, ponderata, disinteressata, restano vittime sul terreno. È per questo che prima ancora di avventurarci nell’avventura del nuovo Giro, mi sembra giusto e doveroso rivolgere un pensiero a chi resta fuori. Non ci sono molte parole, tanto meno pietosi pat-pat sulla spalla, che possano addolcire il suppostone. È una brutta tramvata, altro che storie. La speranza è che gli effetti si esauriscano in questo periodo, senza incidere sul futuro stesso delle squadre. Questo, davvero, è un augurio sentito e accorato.
Personalmente, ad esempio, farò fatica a vedere un Giro senza Claudio Corti in Giro. Non è un santo e non è un eroe, è semplicemente un uomo con tanti pregi e con i suoi bravi difetti, però nella storia del nostro ciclismo è qualcosa. Da dirigente, soprattutto, ha sempre messo assieme squadre di assoluta dignità, ben organizzate e registrate a puntino, senza mai cadere un solo giorno nella dimensione della sbracata armata brancaleone. Non so bene che cosa gli sia mancato questa volta per portare un po’ di Colombia sulle strade d’Italia: probabilmente, i colombiani migliori, accasati altrove. Ma sul piano della serietà, in senso globale, non mi pare abbia deficit. Eppure non è bastato. È andata così. Siccome il ciclismo, per quanto cerchino di disumanizzarlo, resta essenzialmente uno stupendo circolo di umanità, voglio comunque dirgli in tutta amicizia che mi mancherà. E non credo solo a me. Dacci dentro Claudio, non è questo il momento di mollare: quando si chiude una porta, bisogna prima o poi riaprirsi un portone.
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