Gatti & Misfatti
Tour d'Italia

di Cristiano Gatti

Se non altro, fino a qualche tempo fa si avvertiva nell’aria una sana indignazione, un giusto senso di ri­bellione, una feroce polemica a fin di bene. Niente, non c’è più niente di tutto questo: il Giro non si chiuderà a Milano, ma non c’è in Giro un cane che ab­bia ancora voglia di eccepire. Pas­sa via come se niente fosse. Silenzio, indifferenza, rassegnazione.

Non sono questi gli scandali, lo sappiamo bene. Tuttavia. Ormai il rapporto affettivo tra città natale e corsa rosa è definitivamente compromesso. Come in un ma­trimonio esaurito, i due non si sopportano più. Cercano altrove le proprie passioni e le proprie soddisfazioni. Il Giro sceglie di chiudere a Brescia, stavolta a Trieste, magari un giorno a Vien­na o Bruxelles. Milano, in quello stesso primo giugno, quest’anno si scatenerà in piazza Duomo con un megaconcerto di artisti italiani, come a dire che morto un papa se ne fa su­bi­to un altro, se non è il ciclismo rosa a riempire la magnifica piazza sarà comunque qualcun altro, magari più trendy e più rock. Milano non ha più bi­sogno del Giro, il Giro non ha più bisogno di Milano. Tanti sa­luti e nemici come prima.

Personalmente, non mi piace però che la faccenda finisca nel silenzio. Se la situazione è questa, togliamoci almeno il gusto di riflettere e commentare. Prima cosa: sarò vecchio e nostalgico, coservatore e trinariciuto, ma a me l’idea di chiudere sempre, im­mancabilmente, nei secoli dei secoli allo stesso modo, alla stessa ora, nello stesso luogo, pia­ce un sacco. Viviamo nella società del cambiamento e della velocità, ma proprio per questo i pochi riti che sopravvivono di­ventano ancora più preziosi. Che il Tour finisca sui Campi Elisi, con inni e fanfare, presidenti e bandiere, è una cosa tremendamente bella. La stessa Vuelta, che guardiamo dall’alto in basso, si sforza comunque di finire sempre a Madrid. Noi no, noi non diamo peso ai riti e alla tradizione. Guardiamo solo a chi offre di più. Non è un criterio da buttare, sia chiaro, ma al­meno non pretendiamo di farlo ugualmente bello. Spostarsi ogni volta avrà il suo fascino e il suo fatturato, ma toglie poesia e mito a una giornata particolare. Pensa soltanto per ipotesi se il Giro terminasse sempre, sin dalla sua nascita, lungo i Fo­ri Imperiali di Roma, nella capitale d’Italia, tra le pietre più rare e più gloriose del mon­do. Pensa l’evento. Mi dicono: a Roma e ai romani non importa nulla del ciclismo. E poi il Giro è nato a Milano. Benone: ottima anche la conclusione fissa in piazza Duomo. Ma sempre, im­mancabilmente, eternamente. Invece buttiamo anche questa storia nel tritacarne. Perché Mi­lano non ci vuole più, dicono nella stanza dei bottoni. E va bene, però parliamone.

Su Milano città, gente, am­ministrazione comunale, c’è davvero poco da aggiungere: il ciclismo è vissuto come una gran rottura di scatole. Una giornata di fastidi me­tropolitani. Che i ciclisti vadano a farsi un Giro altrove. Girino alla larga. Ma la cosa che mi di­verte di più, in senso amarissimo, è notare come la stessa cit­tà, la stessa gente, la stessa am­ministrazione comunale vadano in brodo di giuggiole per altre giornate di analoghi fastidi, per esempio per la giornata della maratona, nuova moda per sportivi chic, e pazienza se la ma­ratona fa un gran male al si­stema cardiovascolare. Di più. C’è un paradosso ancora più in­credibile: a creare questa nuova passione milanese è proprio la stessa organizzazione del Giro, quella Rcs che da una parte si lascia prendere a pesci in faccia per la gloriosa gara nazionale della bicicletta, mentre dall’altra si presta di buon grado alla feconda collaborazione per la promozione e la valorizzazione della maratona meneghina. Bu­siness is business, dicono in Ame­rica (ma anche a Tripoli e a Pechino): però c’è un limite. Do­vrebbe esserci.

E allora sai che ti dico? Stando così le cose, è con profondo dispiacere e con cupa malinconia che arrivo alla più penosa delle conclusioni: se il Giro non interessa più a Milano (e passi), se il Giro as­surdamente interessa ancora me­no a chi lo organizza, a chi dovrebbe fare qualunque cosa per tenerlo sul piedestallo, se cioè Rcs non è più innamorata della sua creatura, decidiamoci: vendiamo il Giro ai francesi. Vendiamolo al Tour, vendiamolo a chi saprebbe bene come ma­neggiarlo. Così hanno fatto gli spagnoli, così dovremmo fa­re noi. Investimenti e fantasia, organizzazione ed entusiasmo: tornerebbero in rosa queste quattro componenti perse irrimediabilmente per strada.

Lo riconosco apertamente: la sola idea di sottomissione ai francesi mi de­prime molto, ma ci sono mo­menti in cui l’amputazione è meglio di un’aspirina. Fa molto male, è una cosa enorme, ma salva la vita. E il Giro va salvato. Se non sappiamo salvarlo noi, deve salvarlo qualcuno più bravo di noi.
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