Gatti & Misfatti
Quel decennale con la bava alla bocca

di Cristiano Gatti

Anche se è fatica smaltire la colossale sbornia del decennale, su Pantani vo­glio ancora dire un paio di cose. Mi sembra giusto e doveroso. Poi basta, poi si torna in un decoroso silenzio.

Prima di tutto l’idea gui­da di tutte le memorie, le ri­costruzioni, gli inedi­ti e le testimonianze. Ha trion­fato la grande rabbia per il po­vero Marco ri­dotto a capro espia­torio, vittima del sistema marcio e corrotto, lui duro e puro in un mondo di la­dri. Cer­to non sto qui a difendere il si­stema: non l’ho mai fatto, non mi è mai piaciuto, già mol­to prima del caso Pantani. Però non posso neppure accettare questa teoria del martire crocefisso come Nostro Signore. Anche se piace ricordarlo vittima sacrificale di un complotto cosmico, la verità è molto più complessa. Marco non è il solo ad aver pagato. Non è neppure il primo: con un certo anticipo, era già finita nella polvere del doping la simpatica cricca della Festina. Poi, con effetto slavina, tutti gli altri. E quando si dice tutti, significa proprio tut­ti. Mi spiace essere noioso, ma bi­sognerà pur rinfrescare la me­moria: Zuelle, Virenque, Gotti, Ull­rich, Iulich, Garzelli, Simoni, Bas­so, Rebellin, Sella, Ballan, Pel­li­zotti, Vinokourov, Hamil­ton, Landis, Rasmussen, Val­ver­de, Riccò, Di Luca, Frank Schleck, Contador, Ci­pollini, Armstrong…

Certo l’elenco non è completo. Ma mi pare questi nomi possano bastare per sconfessare drasticamente la retorica italiota e tifosa che dipinge Pantani come unico eroe sbattuto giù dal piedestallo. C’è una folla, giù dal piedestallo. Ci sono finiti tutti, giù dal piedestallo. Certo non tutti assieme, perché i tempi e i mo­di dell’antidoping sono a dir poco contorti e cervellotici, per non dire qualche volta decisamente pilotati, ma il risultato fi­­nale proprio non cambia: tut­ti hanno pagato per il doping, non solo Pantani. Caso mai Pan­tani ha pagato in modo eclatante una sua precisa scelta: all’epoca di Campiglio, l’ematocrito alto non era considerato doping (ipocritamente). Marco avrebbe potuto in­cassare la sberla e ripartire di slancio due settimane dopo, e sottolineo due settimane. Se il suo ego, il suo orgoglio, ma so­prattutto il suo entourage megalomane non lo avessero indotto a scatenare la bufera giudiziaria, forse la storia sarebbe ricominciata in un altro modo. Forse. An­che se è sempre difficile pensare che noialtri derelitti possiamo sfuggire al destino prefissato.

Poi c’è una seconda cosa: il decennale è servito alla beatificazione, co­m’è uma­no e inevitabile negli anniversari, ma in questo caso si è commesso un autentico peccato di mistificazione. No, non credo sia il modo giusto di rendere omaggio a Marco raccontandolo santo e perfetto. Eroe e martire. Non lo fanno neppure per i papi. Nei giorni dell’anniversario non si è sentita una sola parola sulla sua personalità complessa, ad esempio su quel suo modo sbilanciato di concepire l’amicizia e i rapporti umani. Con Marco si po­teva es­sere amici come può esserlo il maggiordomo con il padrone, come il suddito con il re, lui sul trono e l’amico sull’inginocchiatoio a contemplarlo e a dirgli sì. Personalmente non è questa l’idea che ho dell’amicizia vera. Nell’amicizia vera non esistono troni e non esistono inginocchiatoi. Si sta sullo stesso piano, pun­to e basta.

Ma ancora più colpevole ho trovato la totale man­canza di autocritica dell’ambiente che circondava il mito. Ragazzi, facciamola breve e basta con le ipocrite poesie: ne­gli ultimi mesi Marco stava ma­lissimo, era disperatissimo, tanto da affidarsi al Sert di Ravenna. I Sert non sono circoli del golf o sezioni del Ro­tary: chiedere per conoscere. Ma mentre lui procedeva senza bussola verso la sconfitta totale, l’entourage raccontava in gi­ro che non c’era problema, che si stava allenando, che aveva grandi progetti. Ricordo benissimo: una volta era ricoverato in una clinica sui Colli Eu­ga­nei per il recupero dalle dipendenze, ma negli stessi giorni i fe­delissimi che avrebbero dovuto stargli molto vicino si preoccupavano solo di negare, depistare, smentire. Tutte cattiverie, secondo loro, Marco si sta­va allenando all’estero, tra l’altro stava andando fortissimo. E i pochissimi ami­ci veri che provavano a lanciare l’Sos, prontamente venivano allontanati…

Non si è sentita una parola, di questa vera verità, nel­la baraonda del de­cennale. Tutti presi a ravanare nei dettagli dell’inchiesta giudiziaria, tut­ti esagitati nel pretendere le scuse della Storia e degli uomini gretti che hanno sacrificato l’agnello. Non sono sicuro che questo sia il modo migliore per onorare Marco Pantani. Non sono sicuro che il decennale passi agli archivi co­me momento alto e commovente. La beatificazione rabbiosa e vendicativa, con la ba­va alla bocca, non servirà a esaltare il ricordo. Di tutto s’è parlato, tranne che della verità più do­lorosa: Marco era un giovane uo­mo alla deriva, in preda alla sofferenza più atroce, ma nessuno nel suo cerchio magico ha voluto prendersi la briga di caricarselo sulle spalle così com’era. Erano tutti presi a salvare la corona.
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