Gatti & Misfatti
Caro amico ti scrivo

di Cristiano Gatti

Amico del ciclismo, mettiti seduto e respira profondamente. Certo hai grande fisico, spalle larghe e stomaco po­tente, ma il momento è terribile: ti vedo provato, hai bisogno di una pau­sa. Da anni incassi e sopporti le prove più feroci, tutti i nuovi miti e le loro relative imprese immancabilmente fatti a brandelli dall’antidoping. Ultimo caso il più mito di tut­ti, con quei sette Tour vinti consecutivamente: una ventina di colleghi di lavoro mettono nero su bianco che il fenomeno era solo un gio­co di prestigio, con il trucco sin trop­po noto. Niente, annullato an­che il superman americano. Non è una cosa seria.

E bastasse la sterminata se­quela di campioni sterminati. Invece non basta, caro ami­co del ciclismo. Sul tuo povero morale, sulle tue illusioni di appassionato, fiocca anche la botta peggiore: la gelida sensazione che i controllori, i garanti delle regole, ab­biano per anni gestito la giustizia a giorni alterni, con due pesi e due mi­sure, dividendo tra figli e figliastri. Il mito americano troppo po­tente, troppo danaroso, troppo, per meritare punizioni e squalifiche. Più conveniente - in tutti i sensi -tu­telarlo fino alla fine. E poco im­porta se a scandalo completato ven­ga improvvisamente riscoperto il rigore: non conta, se arriva dopo la banda.

Anch’io sono un amico del ciclismo e se mi guardo in giro trovo tutti gli elementi per tirare la più grave delle conclusioni: dei periodi critici che ci han­no inflitto negli ultimi quindici anni, questo mi appare il più critico. Perché arriva dopo troppi periodi critici e il nostro fisico è ormai allo stremo. Perché ogni volta che ci il­lu­diamo sia finita si ricomincia in­vece da capo. Perché - prima di tut­to - chi dovrebbe traghettarci fuori dalla palude si è rivelato alla prova dei fatti completamente inadeguato. Non tanto per incapacità: peggio, per malafede. Il che rende tutto ma­ledettamente più nero, perché taglia le gambe sul nascere alla speranza. E senza speranza, lo sappiamo, nel­la vita non si va da nessuna parte.

Sono parole e riflessioni mol­to amare, e in fondo averci ridotti così è certamente la colpa più imperdonabile da addebitare al governo mondiale del ciclismo. Un conto è sapere che i corridori sono sporchi e cattivi, ma che nel gioco di guardie e ladri le guardie sono implacabili. Tutto un altro conto è sapere che le guardie fanno la guardia a modo loro, se­condo lune, convenienze, simpatie. In questo caso, la rabbia è centuplicata. Visto come s’è mossa l’Uci nei primi dieci anni di questo secolo con Armstrong - come minimo, con atteggiamento molto materno e com­prensivo, per non dire altro -, visto come tutte le grida di un certo personale scientifico serio e attendibile siano immancabilmente finite nel nulla, se non soffocate sul na­sce­re, ecco, visto e scoperchiato questo mondo nebbioso e melmoso, chi ci dice che la lotta contro i dopati non si sia svolta tutta e sempre così, cioè su doppio binario, a due velocità, feroci e spietati contro gli inermi, o i qualunque, ma molto delicati e collaborativi con gli amici e gli amici degli amici?

In tutti questi anni, anche sforzandomi di studiare e di capire, io non ho mai ben capito un sacco di cose. Ad esempio perché tanto furore antidoping in Italia e in Germania, mentre in Spagna e in Kazakistan, per non fare nomi, lot­ta e pene come acqua fresca. Perché al­cuni corridori fermati preventivamente e altri neppure sotto tortura. Per anni mi hanno raccontato che l’Uci ha le mani legate, che non può invadere competenze altrui, che tuttavia sta alla finestra come un cecchino, pronto a colpire alla prima occasione utile. Li teniamo monitorati, stiamo loro sul collo, conosciamo i nostri clienti peggiori: così as­si­curavano dalla Svizzera i massimi controllori del ciclismo. Io ho sempre avuto il sospetto che ciurlassero un po’ nel manico, stabilendo di volta in volta, caso per caso, chi af­fossare e chi salvare, magari anche soltanto mettendolo sul chi va là. Ma dopo il caso Armstrong, con il dossier dell’inchiesta americana e con le dichiarazioni di ex funzionari Uci usciti dal sistema, ormai ho una certezza: la lotta antidoping di questi anni fetenti non è una cosa seria. Meglio: lo è solo per alcuni. Per cer­ti altri, è solo una messinscena vergognosa.

La conclusione sarebbe mol­to logica: un grande cambiamento, di facce e di regole. Se così fosse, non sarebbe neppure scandalosa l’idea di una mega-amnistia sul passato, con la contropartita di un regime spietato sul pre­sente e sul futuro. Un modo per dire va bene, quel che è stato è sta­to, passiamoci un colpo di spugna e morta lì, però sappiate che chi ci pro­va da adesso in poi sa già cosa l’attende, la fine senza possibilità di sconti, attenuanti, perdoni. Pur­trop­po, è pura teoria: qui le facce e le regole non cambiano mai. E allora perché dovrebbe cambiare qualcosa nel ciclismo?

Amico del ciclismo, è per questo che ti consiglio di metterti seduto e respirare profondamente. Ho l’impressione che siamo arrivati al capolinea. Fa molto male dentro, ma dobbiamo rispondere a questa domanda: con certa bella gente a comandare, ha ancora senso essere amici del ciclismo, di questo ciclismo?
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