Visto che nessuno si prende la briga di radiarli, l’unica alternativa rimasta è fargliela pagare pesantemente: senza arrivare alla legge del taglione, mettendo semplicemente mano al loro portafogli. Quando si dice che la lotta al doping e ai dopati è fatta solo di chiacchiere, si fanno soltanto delle stupide chiacchiere. Non è vero: chi vuole, con un minimo di coraggio e di schiena dritta, può almeno difendersi. E non è poco. È molto più di tante chiacchiere.
Affronto di nuovo l’argomento, anche in pieno clima di Giro, perché non vorrei mai che una notizia basilare fosse già passata allegramente in cavalleria. A costo di diventare noioso, voglio qui riprenderla e rimarcarla con quattro righe d’evidenziatore: la Liquigas, benemerito club superstite di un made in Italy serio e organizzato, ha schienato legalmente il suo ex-dipendente Beltran, a suo tempo pizzicato con le mani nelle porcherie. Considerandosi giustamente molto danneggiata da questa pessima pubblicità, la società ha compiuto il passo che da sempre è possibile, anche solo a livello simbolico: ha denunciato, con richiesta di risarcimento danni, il suo dipendente infedele.
Capisco che il linguaggio possa suonare nuovo, nel ciclismo: ma un corridore che si dopa altro non è che un dipendente infedele, tale e quale un operaio che saboti con atto di bieco luddismo l’impianto a lui affidato, o un dirigente che sottragga dalla casa un quantitativo di denaro aziendale. Se cominciamo a ragionare così, cambia la prospettiva dei rapporti e probabilmente cambiano pure le conseguenze di troppi tradimenti. Guarda caso, difatti, la Liquigas ha vinto la sua causa sportiva contro Beltran. È un evento storico, che può fare giurisprudenza anche in futuro. Difficile dire se una sentenza di questo genere possa effettivamente obbligare Beltran a scucire in modo coatto gli euro che deve, ma questo in fondo conta poco: non è con 100 o 150 mila euro che la Liquigas cambierà i suoi bilanci, se mai a rimetterci in caso di mancato incasso sono le onlus cui la somma sarebbe lodevolmente destinata. Che conta, che resta, che brilla in tutta la sua novità è il principio: il corridore dopato è prima di tutto una rovina per il marchio stampato sulla sua maglia. Come gli dà un grande beneficio con una vittoria, ugualmente gli arreca un gravissimo danno quando bara. Sembra persino banale, ma nell’ambiente in cui ci muoviamo è semplicemente un evento rivoluzionario.
Non credo di dire fesserie ricordando come sono le consuetudini del ciclismo. Prima della Liquigas, prima di Bordonali (il team manager in causa con Di Luca per il tradimento al Giro), io ho sempre visto la squadra in posizione ambigua, a dir poco, in occasione di casi doping. La cosa mi ha sempre stupito e anche un po’ indignato: ma come, io mi accorgo che la colf ruba nei cassetti di casa e anziché sentirmi ferito divento il primo difensore della ladra? Così le squadre: trovano un corridore dopato in casa, ma proprio loro, anziché montare su tutte le furie, minacciare di impiccarlo sulla pubblica piazza, cercare in ogni modo di strangolarlo seduta stante, sono le prime a correre in soccorso. Ma, sa, dobbiamo valutare, vogliamo vederci chiaro, questi test non sono sempre così attendibili, chiederemo spiegazioni al ragazzo, siamo stupiti perché ha sempre tenuto un comportamento esemplare, nessun pronunciamento prima delle controanalisi, e comunque tutti nella vita possono sbagliare…
Quante ne abbiamo sentite, di questo genere. Io capisco il garantismo e la prudenza iniziali, ma poi non capisco più. Quando il tradimento è accertato, caro il mio corridore, io non mi trattengo più: ti perseguito, ti massacro, ti rovino. Perché deve essere chiaro a tutti che con la tua disonestà non hai fatto male solo a te stesso - tu puoi anche andare al diavolo - ma hai fatto malissimo ad un’azienda rispettabile, che investe soldi per farsi buona pubblicità, che ha dietro centinaia di famiglie, che soprattutto non può giocarsi la reputazione per un imbecille come te.
Così mi sembra umano e naturale ragionare. Queste mi sembrano le reazioni più scontate. Invece no: per anni, i club hanno fatto da crocerossine ai loro poveri corridori in disgrazia. Povere gioie, come si fa a lasciarli solo in momenti così difficili, già hanno tanti problemi… Lo dico sinceramente: dopo dieci anni di vergogne, davanti alle rovine di questi tempi (signori, ci siamo accorti che il ciclismo fa sempre più fatica a penetrare nelle passioni italiane?), ecco, di fronte a queste conseguenze non è più possibile alcuna pietà. I corridori, grandi e vaccinati, devono sapere che dei propri atti si risponde: non solo con una ridicola squalifica di due anni, praticamente una vacanza, ma in un’aula di giustizia, con la concreta possibilità di pagare in soldoni i danni provocati.
Ringrazio personalmente le Liquigas, i Bordonali e tutti quelli che eventualmente vorranno seguirne la strada. Mi piacerebbe tanto che cominciassero a farlo anche gli organizzatori delle gare (penso a cosa potrebbe pretendere il Giro, gloriosa manifestazione popolare d’Italia, negli ultimi anni finita regolarmente nel cesso). Adesso non c’è nemmeno più la scusa che “tanto la causa si perde nel vuoto”. Adesso c’è la prova provata che il corridore può essere trascinato in tribunale. Se invece, anche dopo questi precedenti, le società continueranno a muoversi nell’ambiguità e nella nebbia, allora la conclusione mi sembra inevitabile: le squadre non possono denunciare nessuno perché sono ricattabili. Come tutti i complici.
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