Gatti & Misfatti
Radiazioni

di Cristiano Gatti

Che cosa resta da dire, in quest’altra torrida estate di nuovi cataclismi? A dieci anni di distanza dal mitologico scandalo Festina, papà di tutti gli scandali, ci ritroviamo con un altro Tour devastato (molto fattivo il con­tributo italiano), nello stesso stato confusionale, sen­za la minima idea di come venirne fuori. Nel frattempo, abbiamo coltivato la bella utopia del ProTour e l’abbia­mo velocemente tumulata, sotto un cumulo di ipocrisie, di menzogne, di piccinerie, di ridicoli e meschini egoismi. Al solo citarlo, mi viene in mente il suo codice etico, questa sacra carta dei valori ispirata da nobili pensatori come Manolo Saiz, Patrick Le­fe­ve­re, Bjarne Riiis. Ci penso e mi scappa da ridere.

Spero che questi memorabili e grotteschi fallimenti servano almeno a bloccare in futuro qualsiasi revival del genere. Adesso è il caso di non prenderci più per il naso e di dedicarci alle cose serie. La prima, ovviamente, sarebbe mandare a casa un po’ di gente. Ai li­velli più alti della politica sportiva, prima di tut­to: per dire, come fa McQuaid a re­stare ancora lì, presidente Uci, dopo che la Francia ha smascherato e reso patetici i suoi controlli antidoping e i suoi gloriosi “certificati”?
Subito dopo i vertici Uci, dovrebbero andarsene a casa anche quei team ma­nager, quei direttori sportivi, quei medici che ancora oggi si ostinano a non capire. Ce ne sono, altro che. Le vecchie len­ze del ciclismo hanno tutte lo stesso passato: pretendere la verginità assoluta significherebbe appiedarli in blocco. Chiaro che bisogna accontentarsi di una bonifica. Io tirerei la riga proprio tra quelli che almeno, ad un certo punto, han­no capito l’antifona, cambiando radicalmente abitudini, e quelli che invece insistono a non capire, continuando imperterriti a fare porcherie. I primi possono proseguire nel­la propria redenzione e nel ri­sanamento dell’ambiente, gli altri devono sparire dalla circolazione. Se non è possibile la galera, che almeno vadano ad architettare inganni a casa loro.

Resta infine aperto il ca­pitolo degli atleti. Cosa fare, a questa bella gen­te che dopo l’Epo di prima ge­nerazione ha continuato ad as­saggiarle tutte, fino alla quar­ta generazione? Mi sembra chiaro: dopo dieci anni di puntuali delusioni, il ciclismo deve dichiararsi in piena emer­genza. Se non è emergenza quella del ciclismo, mi chiedo quando sia emergenza: solo alla fine del mondo? Una volta riconosciuto questo stato eccezionale e particolare, è possibile assumere una decisione adeguata alla gravità del­la situazione. La mia idea è sempre la stessa. La ripeto da troppo tempo, ormai, sen­za grandi risultati. Al Tour, se non altro, mi sono trovato come sodale Bernard Hinault, il che mi ripaga: meglio un’esigua compagnia, ma qualificata. A seguire, ho potuto finalmente dare il benvenuto tra i radiazionisti anche ad Ame­deo Colombo, presidente dell’Assocorridori, che finalmente ci è arrivato: un po’ lento, ma meritevole. Torno a bomba (in senso buono): il corridore ciclista che viene pe­scato all’antidoping deve essere radiato. Subito, alla prima caduta. Senza se, senza ma. Soprattutto, senza cavillare e sen­za spaccare il capello in quattro. Mi pare che dieci an­ni di pene omeopatiche possano bastare: dimostrano am­pia­mente che punire con due anni di squalifica certi tangheri della bicicletta, è come combattere Bin Laden a colpi di cotton-fioc.
Niente, non possiamo continuare a curare le metastasi con l’aspirina. Bisogna decidersi. Qui la pe­na non serve a rieducare: nel ciclismo di oggi, la pena serve solo ad amputare i pezzi de­composti. Non c’è più spazio per comprensioni e tolleranze. È un discorso molto duro, ma non ci sono alternative. Non ce ne sono più, se le sono giocate tutte. Resta solo il castigo feroce e definitivo: amico mio, se dopo dieci anni di scan­dali ancora non hai capito, se in mezzo a questa devastazione ancora riesci a siringarti senza ritegno, significa che non sei fatto per noi. Non ti vogliamo. Vai a fare danni da un’altra parte. Cambia me­stiere, se ne trovi un altro. Dat­ti all’allevamento ovino, in cima a qualche montagna. Lontano, molto lontano dal ciclismo

Troppo crudele, la radiazione? Forse. Ma non è certamente più crudele di certi dementi, che senza la minima pietà stanno cercando di giustiziare uno sport bellissimo.
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