Gatti & Misfatti
Wow

di Cristiano Gatti

Non esprimo un’opinione, è solo una constatazione: dopo anni di architettura creativa, di trovate ge­niali e di logorroiche consultazioni, il ciclismo si ritrova esattamente al punto in cui si trovava tanto tempo fa, quando tutti decisero che andava svecchiato e rifondato.

Vado avanti con i semplici fatti. S’era detto, tanto tempo fa, che il ciclismo doveva salire di rango, co­piando un po’ la Formula uno, un po’ la serie A, un po’ i circuiti tennistici. Copiando un po’ tutti. Grandi squadre, grandi corse, grandi cifre. So­prattutto, grandi dimensioni. Basta con la dimensione condominiale del Centro Europa, basta con il pollaio di casa, basta con gli orizzonti ristretti. Via, fuori, aprirsi al mon­do: dall’America alla Cina, passando per l’Africa e l’Au­stralia, tutti di corsa verso un ciclismo nuovo e diverso. Bello, ricco, famoso. Con un sacco di felicità per tutti.

Continuo ad evitare le opinioni personali. Re­sto alla cronaca e alla storia. Più o meno un decennio dopo, da quando cioè ab­biamo tutti cominciato a mon­tarci la testa e a scimmiottare chi non andava scim­miottato, abbiamo da­van­ti questa fotografia. Il ci­clismo non si è allargato, né tanto meno si è innalzato, sem­pre che non si voglia so­stenere che svernare una volta ogni tanto in Malesia e in Cina corrisponda ad un’esplo­sione di popolarità e di fatturato. Il mercato, in realtà, è sempre lo stesso. Così come sempre le stesse, per mole e per numero, per nazionalità e per finanziatori, sono le squadre. Quanto alle corse, non ne parliamo. Si pensava di togliere peso al Tour e al Gi­ro, di comprimere e selezionare le grandi classiche europee, per lanciare via satellite il grande Giro di Birmania, della Tanzania, del Gua­te­ma­la, della Turchia e della Mon­golia. Qualcuno aveva molto a cuore il Giro delle Mau­ri­tius e delle Seychelles, ma for­se per motivi suoi. Invece.

Non è un punto di vista personale, resto fermo al­la fotografia oggettiva: riguardandolo adesso, dopo le rivoluzioni moderniste, il ci­clismo si presenta come uno sport disperatamente aggrappato a poche cose buone. Il Tour, il Giro, la Sanremo, le classiche del Nord, il Mon­dia­le e il Lombardia. Più qualche corsa di mezza caratura che ser­ve per allenare e svezzare. Punto. E l’auspicio generale è che Dio conservi ancora a lun­go questo patrimonio. Al­meno questo.
Sempre restando ai fatti, senza la minima contaminazione di opinioni faziose. Nessuno può negarlo: os­servandolo bene, il ciclismo di oggi e del futuro assomiglia maledettamente al ciclismo di allora. Di ieri e dell’altro ieri, di quando improvvisamente quattro megalomani si sono svegliati una mattina e hanno deciso che bisognava rifare tut­to. Più nuovo e più bello. Più wow. Allora, prima dei colpi di genio, aspettavamo la Sanremo, poi le classiche del Nord, quindi il Giro, quindi il Tour, quindi il Mondiale, per ritrovarci tutti a chiudere con il Lombardia. Qualcuno mi dica se adesso, dopo tanta genialoide creatività, ci troviamo davanti qualcosa di di­verso. Se davvero il ciclismo è diventato come la Formula uno, come la pesca sportiva o come diavolo pensavano i cervelloni del cambiamento. Do­po anni di demenza (qui, lo ammetto, sono al commento personale) siamo tali e quali a prima, con qualche cicatrice in più per i noti motivi. Dal mio personalissimo punto di vista, non è poi così male: cer­te corse amavo allora, le stesse corse amo adesso. Me lo tengo stretto, questo nuovo ci­clismo emerso dalle riforme planetarie. Ha un sapore buo­no, mi ricorda qualcosa di fa­miliare. Niente da ridire, nessun rimpianto, da parte mia. Qualche domanda, invece, do­vrebbero porsi quelli che progettavano in grande: dieci an­ni dopo, si ritrovano al pun­to di partenza. Anche peggio. Nonostante tutto il loro lavoro di innovazione e di cambiamento. Se la pongano, qualche domanda. Se poi hanno anche qualche risposta, ce la facciano sapere.
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