Gli inglesi già lo chiamano così: cycling. Ma è solo perché nella loro lingua il sostantivo è questo. A me pare invece arrivato il momento giusto per adottarlo come vocabolo universale, nuova denominazione ufficiale di questo strano sport, meticcio e bastardo, venuto fuori negli ultimi dieci anni, con pratica e popolarità in crescita esponenziale. Cicling: sì, è proprio il nome giusto. Esprime compiutamente, direi alla perfezione, ciò di cui parliamo: ciclismo più doping. Uguale cicling. Una parola sola, come somma di due cose intrecciate e connesse, che si muovono in strettissima simbiosi, l’uno e l’altro ormai incapaci di avere una propria vita autonoma.
Situazione terribile, allucinante, spaventosa. Quello che una volta era ciclismo, cioè corse avvincenti e romanzesche con la possibilità eccezionale di beccare in fallo un baro, non esiste più. Morto e cremato. Adesso esiste questo mostro che propone la partenza di una corsa apparentemente normale, genericamente ciclistica, ma che nel breve volgere di poche ore o di pochi giorni si trasforma in una affarraccio sporco di denunce, analisi, squalifiche, interrogatori, processi e beghe legali. Livello dello spettacolo? Vomitevole.
Ogni volta il cicling propone lo stesso copione. Prima del via, c’è una pletora di dementi che presenta l’evento come l’occasione della svolta, come il ritorno del rigore e della pulizia. Non è che lo sappiano, o che ingenuamente ci credano. Sono solo in malafede. Sanno che non è così, ma nella loro testa lavora un tarlo devastante, che si mangia i pochi neuroni sopravvissuti. Parlano e pensano in automatico, conoscono un solo dogma: bisogna tenere su l’avvenimento. Tenere su, tenere su, tenere su. Sempre e comunque. Contro ogni evidenza, contro ogni buonsenso, contro ogni minimo decoro. Sono quelli, tanto per fare un esempio a caso, che riescono a raccontare all’ultimo Giro l’epopea di Eddy Mazzoleni, che lì neppure dovrebbe starci. Cosa vuoi: mica si può raccontare che Mazzoleni è inguaiatissimo. Mica si può raccontare la pura e semplice verità. Bisogna tenere su l’avvenimento. E vai con i superlativi, che tanto la gente ha l’anello al naso.
Regolare, prevedibile, scontato anche l’ultimo Tour. Gli spocchiosi di Francia spacciano al mondo il loro Tour pulito. A garantirlo, quella ridicola e pietosa cosa del documento sottoscritto da ciascun corridore, una simpatica invenzione che permette a qualsiasi bugiardo di firmare il falso e presentarsi al via immacolato. Tempo poche tappe, e anche il Tour immacolato s’è trasformato in un epocale appuntamento di cicling. A raccontarlo, puntuali e zelanti, sempre gli stessi: quelli che già l’anno prima, una volta rispediti a casa Ullrich e Basso, ci avevano elargito la poesia struggente di un Tour più lento, più incerto, ma tanto umano e tanto pulito. Difatti, Landis.
Voglio schierarmi senza tanti giri di parole, scusandomi sin d’ora per la pesantezza dei termini. A me, questo cicling, ha rotto letteralmente e definitivamente le balle. Non ne posso più. Parlo del cicling e di quelli che lo raccontano, da dieci anni ripartendo ogni volta con la storia del Giro pulito, del Tour pulito, della Vuelta pulita (si ripulissero, una volta tanto, anche la coscienza, se ne hanno una). Di fronte allo squallore dello spettacolo, mi aggrappo ai due o tre punti fermi che tanti anni di ragionamenti e di chiacchiere mi hanno concesso. Il primo: la guerra mondiale al doping non finirà certo nel breve volgere di una stagione. Siamo di fronte ad atleti cresciuti sin dallo svezzamento con la convinzione suprema e inattaccabile che la bicicletta richiede aiuti chimici. Punto. Si può forse chiedere a un fumatore incallito di smettere dalla sera alla mattina? Ma li abbiamo visti, certi fumatori incalliti, a quali teneri, patetici, infantili mezzucci ricorrono pur di rimettersi in bocca l’amata bionda? Ecco, così sono i ciclisti: prima che smettano davvero, ce ne vuole. E per alcuni, sarà utile ficcarcelo bene in testa, non basta nemmeno San Patrignano. Dunque, mettiamoci il cuore in pace: prima di avere un Giro o un Tour davvero puliti, servirà ancora parecchio tempo. E anche allora, sia chiaro, avremo sempre al via qualche astuto che crede d’essere più astuto degli altri. Il punto centrale, allora come oggi, sarà soltanto uno: liberarsene.
E pervengo così all’altro punto fermo. Conosco un solo rimedio pratico veramente efficace, al momento, per arginare il cicling: la radiazione. Subito: al primo controllo sbilenco, alla prima intercettazione, alla prima inchiesta. Il doping, oggigiorno, continua ad essere un formidabile investimento, per un giovane: con la chimica può spuntare il contratto che lo sistema per la vita, poi il rischio è ridicolo: al massimo, in caso di incidente ai controlli, due anni. Per un tizio che ne ha 25 o 26, ma anche 28 o 29, è praticamente una vacanza. Poi, torna più fresco che mai (quanti ne abbiamo già visti?). Mi sembra evidente: così non si può continuare. Li butti dalla porta e rientrano dalla finestra. La mia idea è che non debbano più rientrare. E basta. So che la radiazione è pesante e brutale, so anche quanta gente illustre è pronta a confutare questa mia idea fissa. Ma lo giuro: non me ne importa più nulla. Non ho più voglia di ascoltarli, questi teorici della sfumatura. Quando la cancrena è così estesa, per salvare una vita esiste solo il taglio netto. Sono troppo greve, troppo gretto, troppo becero? Va bene, sono un bischero. Ma allora teniamoci il mostro. E buon cicling a tutti.
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