L’evoluzione della specie porta inevitabilmente i suoi effetti anche nel ciclismo. Ultimamente appare sempre più evidente la nuova fase antropologica in cui siamo entrati: l’era del bellismo.
Per capire che cosa sia questo bellismo bisogna rifarsi alle ultime interviste rilasciate dagli esemplari più avanti nel processo di trasformazione: Di Luca e Pozzato. Prima di loro, molto prima, andava studiato Cipollini, che più di chiunque altro, in gruppo, denotava i chiari segnali del cambiamento. Vanità, narcisismo, cura del look, lampade invernali e colpi di sole (in senso buono), abbigliamento Pitti-uomo e orologi enormi e unghie limate e scarpe affilate, meglio in coccodrillo, belle macchine e vita bassa, purchè bella vita: ecco, più o meno questi i tratti distintivi del bellismo. Uguale nell’esercizio del mestiere: per sincera ammissione degli stessi Di Luca e Pozzato, “prima di andare all’allenamento o in gara ci piace guardarci allo specchio, curare i dettagli, controllare che la divisa sia a posto e scegliere l’occhiale in tinta…”. Il problema resta il casco, un problema che Pozzato affronta con stoico spirito di sacrificio: “Rovina i capelli, mi pesa portarlo, ma portarlo bisogna…”.
Ricordo una volta al Giro d’Italia: con l’amico Angelo Costa siglammo lo scoop (sai lo scoop) di Pantani che si passava la matita nera - come diavolo si chiama - attorno agli occhi, per farli risaltare in foto e in tv. Ricordo anche il proliferare degli orecchini in mezzo al gruppo: ad un certo punto se lo mise anche Ullrich, che francamente ha una capoccia molto più indicata all’elmo con le corna che all’orecchino bizzoso. Ricordo insomma come i segni del tempo abbiano sempre lasciato tracce nel mondo del ciclismo, un mondo ritenuto primitivo, tradizionalista, retrogrado, ma del tutto a sproposito: sono almeno vent’anni che i ragazzi in bicicletta sono tali e quali i ragazzi della loro età. La vera differenza di questo fenomeno attuale, del bellismo proposto come stile di vita e modello culturale, sta secondo me in un risvolto che gli stessi Pozzato e Di Luca tengono a sottolineare: basta, dicono, il ciclismo deve rinnovarsi.
Sinceramente fatico a capire il passaggio: se Pippo Pozzato ha voglia di curarsi come un modello, proponendosi come il Raz Degan della bicicletta, io non ci trovo proprio niente di male. Anzi, mi diverte. Se lo stesso Di Luca, o chi per lui, ama passarsi il gel prima di affrontare il Mur de Huy o il Ghisallo, niente da dire e niente da eccepire: per come la vedo io, ciascuno deve semplicemente presentarsi come è e come si sente. Vorrei persino scomodare la formula “basta essere se stessi”, se non fosse che me la sono vietata da tempo perché la sparano tutti a tutte le ore, soprattutto quelli che non sono se stessi mai, nemmeno da soli.
Ciò che invece mi sento di respingere in modo drastico è questo loro collegamento logico: facendoci belli, ci rinnoviamo. Sai che colpo di genio. Bastasse un lifting, per essere più giovani. Bastasse ritinteggiare, per avere la casa nuova. Purtroppo, il rinnovamento è una cosa molto più complicata. Prima di tutto, non l’ha ordinato il medico. Esatto, non è un dovere, rinnovarsi. Conosco un sacco di cose che non si sono mai rinnovate, non si sono mai piegate alle mode del tempo, trovando anzi nella loro immutabilità il tratto più originale e inimitabile. Restando allo sport: trovo bellissimo che il rugby sia ancora quello di cent’anni fa, e anzi proprio in questa stagione di frikkettoni e happy-hour stia imponendosi di nuovo con gli ingredienti più out, cioè panze, fasce in testa, sorrisi sdentati e cicatrici. Il motivo? Vai a sapere. Se dovessi dare una risposta, propenderei per questa, nuovissima: il rugby ha saputo restare se stesso, con sincerità, senza vergogne e senza imbarazzi. Già sentita, come risposta? Mi dispiace, avevo giurato di non usarla più, ma ogni volta torna inevitabilmente fuori.
E comunque, anche in caso si scelga il rinnovamento, non è certo mettendoci tutti in canottiera, col pelo di fuori, ballando sui tavoli del Twiga, che improvvisamente diventiamo interessanti e attraenti. Certo, l’ideologo del movimento bellista, Flavio Briatore, ha appena finito di dire che non rimpiange Schumacher perché “era un campione, ma non una star”. Ma siamo sicuri che Briatore dica sempre la cosa giusta? Non è che anche Briatore, qualche volta, possa sparare una bischerata?
Se devo dirla tutta, temo che il rinnovamento di cui parlano i bellisti, sulle orme di Cipollini, sia più che altro un’esigenza tutta loro, intima e personale, magari invidiando un certo mondo del calcio che alla fine della partita si gode la notte all’Hollywood, in un tripudio di paparazzi, champagne e gonnine inguinali. Se è questo il rinnovamento, se è per questo che bisogna rinnovarsi, mi sembra fatica sprecata. Televisioni e rotocalchi, da sempre, hanno bisogno di prede molto popolari, da buttare in pasto ai grandi numeri. E se puntano l’obiettivo fuori dalla cerchia, è per gente molto, ma molto, ma molto mitizzata, vedi il Valentino Rossi di oggi o il Pantani di ieri. Se invece rinnovamento significa qualche buona idea per rilanciare il ciclismo, allora siamo tutti d’accordo. Anch’io ne avrei già una semplicissima: perché non la piantiamo di smarronare la gente con tassi di ematocrito e incroci sangue-urine sballati?
Punto e a capo. La discussione può continuare. Il tema è enunciato: serve il bellismo per rinnovare il ciclismo? In attesa di vedere gli specchi al foglio firma, faccio la mia dichiarazione di voto. No, non serve: per rilanciare il ciclismo serve un grande campione che vinca grandi corse. Come sempre. Per questo, al bellismo continuo a preferire un movimento antico: il bravismo.
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