Editoriale

di Pier Augusto Stagi

UNA PRIMAVERA ROSA. Sara Felloni la prima, poi Diana Ziliute, che nel ciclismo femminile è andata ad occupare un posto di rilievo assoluto, poi ancora la svedese Susanne Ljungskog e l’olandese Mirjam Melchers, prima di una doppietta ad opera della russa naturalizzata kazaka Zul'fija Chasanovna Zabirova, infine la tedesca Trixi Worrack. Dal 1999 al 2005 si corse la Primavera Rosa, la Milano-Sanremo delle donne organizzata da Rcs Sport grazie alla sensibilità e alla visione dell’avvocato Carmine Castellano, che fortissimamente la volle e fortissimamente la difese, ma nulla poté quando ci fu un cambio di strategia in Rcs e un conseguente avvicendamento al vertice e alla direzione con Angelo Zomegnan che decise di toglierla dal calendario.
Ora, dopo 20 anni, eccola nuovamente in tutto il suo splendore. Anzi, la cosa bella è che ora a tutti gli effetti si chiami Sanremo Women, al pari di Fiandre, Roubaix e Liegi in attesa che entri a far parte del circuito femminile anche Il Lombardia: quella sì, sarebbe una primizia. C’è solo un rammarico in tutta questa vicenda, che nella brochure di presentazione la corsa al femminile venga definita come la 1a edizione. Vero, come Sanremo è la prima edizione, ma alle sue spalle ci sono sette edizioni che vanno ricordate e contabilizzate. Da Varazze a Sanremo, sotto l’egida di Gazzetta dello Sport: è un atto di giustizia per chi quella corsa disputò e vinse. È un atto dovuto all’avvocato Castellano che ebbe l’intuizione, così come al Comune e agli amici di Varazze che si adoperarono con visionaria passione, prima di un doloroso stop, prima che giustamente l’Unione Ciclistica Internazionale richiamasse gli organizzatori e le squadre ad investire sull’altra parte del cielo, dimostrando grande sensibilità e progettualità, anche se in quel caso Castellano e la Rcs Sport arrivarono per primi e non per ultimi, come per una bizzarra distorsione storica ci vogliono far credere oggi.

SCACCO AL RE. Dai “marginal games” ai “salary cap”, dai dettagli ai costi calmierati, in nome di una monotonia - così dicono, così sostengono - espressa dal ciclismo più bello degli ultimi anni. Per quanto mi riguarda è il più bello in assoluto.
Tadej Pogacar il normalizzatore, l’uomo che toglie passione e valore, concetti espressi solo dai cosiddetti “addetti ai lavori”, da chi vive più di rancore che di ammirazione, più di invidia che di bellezza. Ben diverso è quello che arriva alla gente, a quella comune, quella che ha riscoperto in questi ultimi anni il ciclismo grazie al bimbo sloveno come ai tempi di Pantani. Basta vedere i numeri che fanno di continuo questi fantastici ragazzi, da Tadej a Pippo, da Mathieu a Remco, passando per Primoz, Wout e Jonas; basta vedere i numeri che anche il nostro sito o la stessa tivù di Stato fanno registrare.
Se c’è lui, se c’è il numero uno Tadej Pogacar, la variabile più bella e sublime del ciclismo mondiale, lo spettacolo è assicurato. Che poi vinca o perda va bene lo stesso, come a Sanremo, dove quei tre giganti se le sono date di santa ragione come in un incontro di boxe e non una partita a scacchi, finita per altro con uno scacco al Re.
Vogliono normalizzare, limitare e rallentare (sì rallentare, limitando l’uso dei rapporti e aumentando la sezione degli pneumatici e i pesi delle biciclette), perché ne va dello spettacolo secondo l’Uci, l’organismo che regola il ciclismo mondiale. Ma la Sanremo l’hanno vista? Davvero sono convinti che Pogacar stia togliendo interesse e non il contrario? E poi chiedetelo direttamente a Mathieu Van der Poel per quale ragione questa Sanremo «la ricorderò tutta per la vita». Provate a chiederglielo: l’asso olandese, vi spiegherà che non c’è nulla di più bello di vincere una classica di questa levatura tra due monumenti, uno per giunta con i colori dell’arcobaleno, davvero monumentale. Un Tadej battuto è il premio più bello. Accade di rado, ma quando accade…

LA PIÙ BELLA. La Sanremo più bella di sempre? Mi sembra eccessivo, esageratamente eccessivo, anche se resterà per sempre nei nostri cuori, perché non capita tutti i giorni di vedere i tre uomini più attesi, i più pronosticati, duellare a testa alta già fin dalla Cipressa.
Senza scomodare Girardengo o Coppi, Merckx, Binda o Bartali, Gimondi o De Vlaeminck, Moser o Saronni, Bugno o Chiappucci, il volo di Fondriest o quello di Paolo Bettini, quella di quest’anno è da considerare certamente una delle più belle di sempre, per come e dove è nata (alla Cipressa), per la selezione creata e per la nobiltà degli interpreti che l’hanno animata fino alla fine. Ma la Sanremo del 2018 vinta da Vincenzo Nibali in 7 ore e 18’ di sella, alla media di 40,208, contro le 6 h 22’ (media 45, 288) di Van der Poel, ve la ricordate? Io sì. Ed è stata bellissima.

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