Gatti & Misfatti
Fuoripista

di Cristiano Gatti

Rilanciare la pista, bisogna rilanciare la pista. Lo sento ripetere da diversi anni, praticamente hanno cominciato a ripeterlo subito dopo la famosa epopea dei Maspes, dei Gaiardoni, dei Beghettobianchetto (una parola sola, come allora) e dei Pettenella. Della Sei Giorni di Milano. Più o meno, è un trentennio. In tutto questo tempo, non ho girato angolo senza trovare qualcuno che ripetesse accorato e commosso il nobile proclama: rilanciare la pista, bisogna rilanciare la pista. Un’emergenza nazionale, che come tante nostre emergenze è diventata stabile, cronica, normale. Se d’improvviso fosse risolta, quasi quasi se ne sentirebbe la mancanza.

Rilanciare la pista, bisogna rilanciare la pista: il vecchio slogan è il nuovo grido di battaglia del gran capo federale Silvio Martinello (parentesi: spero che adesso lo possa definire così, perché l’ultima volta mi ha pesantemente censurato sostenendo di non essere nulla). La missione: riportare gli stradisti nei velodromi (un giorno, con calma, mi spiega anche come farà a convincere i loro sponsor e i loro direttori sportivi), fare il pieno di medaglie ai Giochi di Pechino (per la cronaca, fra tre anni), sfruttare questo effetto trascinamento per restituire alla disciplina la sua fama, la sua visibilità, la sua importanza. Mi scuso per la sintesi, ma non potevo tramortire la gente con il piano dettagliato: già ci metto del mio...
Stanno lavorando alacremente. Il duo Martinello-Callari, che già aveva dato buoni risultati in gara, ha agito con le ruspe e con i picconi. Una vera ristrutturazione. Per i bilanci, va doverosamente concesso un po’ di tempo. Qui, adesso, preme se mai sollevare una questione più sottile, più ideale, diciamo pure di filosofia. Provo a dire in poche parole. Più che altro, chiedo come sia possibile restituire - oltre alle medaglie e a qualche ora di televisione - la grande popolarità alla pista. Questo, presidente Martinello, è il vero nodo. Attualmente, mi risulta che questa popolarità sopravviva soltanto nell’isola felice di Fiorenzuola, grazie all’eroico Claudio Santi. Per il resto, è un mortorio. Anche il karate o il tiro con l’arco possono avere molte glorie olimpiche, grandi simpatie negli ambiti Coni, ma da qui a dire che siano sport popolari, radicati, diffusi, amati, discussi, ecco, mi pare proprio ce ne corra.

Che cosa significa, allora, rilanciare la pista? Un conto è restituirle un paio di velodromi, qualche comparsata di Petacchi e magari un oro a Pechino. Un altro conto, tutto un altro discorso, è restituirle un posto stabile nelle simpatie dei tifosi e nelle quotidiane discussioni da bar. Cioè riportarla al centro delle passioni popolari. Domando: ammesso - e non ancora concesso - che sia possibile riportare la pista ai livelli di prestigiosa disciplina olimpica, davvero siamo sicuri che gli italiani siano ancora contagiabili dal virus della pista? Che cosa ce lo fa credere? Quali segnali abbiamo?

Ma facciamo un altro passo avanti: poniamo pure che un domani, inaugurando nuove kermesse, drogando (in senso buono) lo spettacolo con accorgimenti giocosi e mondani, attirando il magico mondo delle scommesse, ecco, importando cioè in Italia il modello effettivamente in auge presso altre popolazioni, dal Giappone ai Paesi Bassi, ammesso tutto questo, ancora chiedo: che cosa stanno facendo, Martinello e i suoi seguaci, per questa dimensione della pista, ovvero per la sua diffusione popolare?

Se devo dare una risposta veloce, mi pare che gli sforzi - e le assunzioni - siano tutte dirette alla spasmodica missione Pechino. Si guarda all’aspetto elitario del fenomeno, evidentemente nella convinzione che ricominciando a vincere ci sia poi il conseguente effetto a catena della popolarità. Sarà. Però vorrei citare solo un paio d’esempi: Maenza ha vinto molto alle Olimpiadi, ogni quattro anni l’abbiamo dipinto come un eroe nazionale, piangendoci sopra molte lacrime per l’insensata indifferenza nel periodo senza Giochi, ma non mi risulta che gli italiani siano diventati poi un popolo di lottatori, o che comunque il lunedì mattina si picchiassero nei caffè, per arrivare primi alla Gazzetta sdraiata sul frigo dei gelati. E così la vela: quindici giorni di febbre ogni quattro anni, tutti che sembrano diventare degli Ulisse moderni, ardimentosi e sognatori, salvo poi rientrare docilmente nei serragli degli sport domestici, dal calcio alla formula uno, e cara grazia se ancora c’è un posto per Giro e Tour. Ci sarebbero altri casi simili, ma spero di potermi fermare con l’elenco, purchè sia chiaro cosa intendo.

Dunque, concluderei. Ripetendomi. Per me - e non lo dico con piacere - il ciclismo è ormai uno solo: maschile e su strada. La pista, come il pugilato, fa parte della nostra storia, confinata nelle malinconie per una stagione bella e purtroppo lontana. Se Martinello&C. riusciranno un giorno a farmi mangiare questo foglio, sono pronto a complimentarmi. Però si ricordino almeno di una cosa: rilanciare la pista, per noi che ricordiamo un certo passato, significa riaccendere quella passione nazionale, non riaprire un circolino per pochi addetti. Di un altro karate, nessuno sente il bisogno.
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