Due squadre italiane su venti nel Pro Tour, Lampre e Liquigas. Ce ne sarebbe una terza, quella di Stanga, ma è a capitale tedesco. Vogliamo dircelo? Per un Paese che ha dato al ciclismo quello che ha dato l’Italia, resta una presenza mortificante. È vero: il Pakistan e la Costa d’Avorio non ne hanno nemmeno una. Dunque, è con queste nazioni che ormai reggiamo la competizione. Cosa dire: il sospetto che ormai il nostro destino sia quello, e non solo a livello ciclistico, io ce l’ho da tempo. Ma quando lo dico mi tacciano d’essere un disfattista, per cui non mi dilungo sul tema. Restiamo alle nostre squadre nel Pro Tour: comunque si legga il dato, due a pieno titolo e una come mano d’opera, ne usciamo umiliati. Altro che culla del grande ciclismo: da come s’è messa, abbiamo tutta l’aria del mausoleo.
Probabilmente, dopo queste righe ci sarà chi si aspetta il solito piagnisteo, carico di vittimismo e di risentimenti, che in tanti hanno inalberato con l’arrivo del Pro Tour. Sbagliato. Desidero deludere subito questo genere di italiani. Sto tutto dall’altra parte: con quelli che non hanno nulla da eccepire. Per una ragione semplicissima: se non abbiamo un numero maggiore di squadre nella seria A della bicicletta, la colpa è solo nostra. Diciamo che la percentuale del dieci per cento, o del dieci virgola se contiamo la manodopera a libro paga dei tedeschi (e meno male che un italiano come Stanga riesce ancora a farsi apprezzare dagli stranieri), è una cifra perfettamente rappresentativa. Di che cosa? Del nostro modo d’essere, del nostro modo di pensare, del nostro modo di agire.
Amici miei, è meglio che nessuno si offenda. O che faccia il patriota a sproposito. La verità è nuda e cruda, basta saperla leggere senza fare troppo i permalosi: non appena il bel giochino si è dato delle regole e dei criteri precisi - discutibili e migliorabili sin che si vuole, comunque precisi - noi siamo caduti di bicicletta. In pochi mesi, è franato miseramente il sistema Italia. Sì, il nostro declamato made in Italy, che tanti risultati - diciamo - ha dato in passato. Ecco, vediamolo, questo made in Italy: furbizie, approssimazioni, arrangiamenti. Effettivamente, in questo siamo fenomeni. La nostra cosiddetta elasticità, la nostra cosiddetta arte di arrangiarci, queste doti e queste virtù di cui andiamo fieri da sempre, al primo impatto con la serietà sono miseramente andate in frantumi.
Se devo essere sincero, la cosa non mi dispiace. Della nostra arte di arrangiarci, personalmente, ne ho piene le tasche. Resto dell’idea che se usassimo le energie impiegate nel trovare scappatoie e sotterfugi in una più normale attività di programmazione e di organizzazione, ma sì, proprio come fanno le teste quadre all’estero, tedeschi svizzeri belgi olandesi, proprio quelli che guardiamo col sorrisetto di superiorità perché ottusi e disciplinati, incapaci d’essere elastici, appunto, di “arrangiarsi”, ecco, sono certissimo raccoglieremmo meno figuracce da cioccolatai e più risultati concreti. Insieme a quel risultato sempre meno secondario che si chiama reputazione.
Patti chiari, amicizia lunga: lo dico a quei genialoidi che sicuramente leggeranno questo discorso come una servile difesa del Pro Tour e del suo papà, Verbruggen. Patti chiari, amicizia lunga: sul Pro Tour posso aprire l’elenco dei difetti, anche se devo dire che il direttore Stagi e tuttoBICI assolvono già a meraviglia questo compito (dico di sostenitori critici, per usare una definzione). Ma non c’entra. No, in questo caso il Pro Tour, con i suoi pregi e i suoi difetti, non è tema di discussione. Qui è in gioco qualcosa di molto più importante: i nostri metodi, la nostra mentalità, la nostra testa. Alla resa dei conti delle regole e dell’organizzazione, in una parola della semplicissima serietà, ne usciamo svergognati. Questa la realtà. Tra l’altro, è un altro buon motivo per far ridere di noi all’estero, dove avranno pure teste quadre e saranno molto meno simpaticoni, ma semplicemente sono abituati a leggere le regole e ad adeguarsi. In difetto di fantasia, semplicemente fanno ciò che si deve fare. Punto. Loro hanno i soldi e noi no? Via, non facciamola così facile. Come se noi in passato non avessimo speso abbastanza. Ma loro, ribattono ancora i nostri patrioti, hanno sponsor più grandi dei nostri. E se non fosse solo un caso? E se ciascuno avesse gli sponsor che si merita?
Ci resta una sola speranza: che le tramvate di questa prima fase servano come corso di recupero, o come brutale riabilitazione, in modo da obbligarci a compiere quel certo salto di qualità necessario. Chissà che non sia proprio l’Europa a spingerci di peso là dove non saremmo mai arrivati da soli, cioè cacciare a calci nel sedere arrangioni, papponi e praticoni. Se così fosse, se davvero uscisse un nuovo made in Italy dalle ceneri di quello folkloristico e albertosordista che ci affligge nei secoli dei secoli, non esito a schierarmi: brutto, storpio e sgangherato, ma sempre viva il Pro Tour.
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