Un’altra lapide nel cimitero del ciclismo, questo particolare cimitero che sta cominciando ad avere problemi di spazio. Stavolta tocca a Simone Soriga, 17 anni. Era sardo, ma emigrava in Bergamasca per esercitare il ciclismo a più alti livelli. Prima ancora di cominciare davvero a vivere, ha troncato il suo viaggio su una strada di provincia, mentre studiava il percorso della prossima gara, stritolato sotto le ruote di un camion. È già passato più di un mese, ma è difficile rimuovere.
Troppi morti, troppe tragedie umane. Ragazzi che escono di casa inseguendo il sogno di un domani da campione. Semplici pensionati che non coltivano più sogni, ma soltanto il sano piacere di una terza età gagliarda. Tutti quanti giustiziati sul patibolo di queste nostre strade italiane, sempre più caotiche, sempre più ingolfate, sempre più elettricamente cariche di fretta e di nervosismo.
Dicono: la bicicletta fa bene, è l’esercizio ideale, da zero a cent’anni. Andate in bicicletta, usate la bicicletta. Questo ci sentiamo dire e questo condividiamo, noi che esercitiamo il nobile esercizio. Ma da molto tempo, ormai, non possiamo più nasconderci la verità: il ciclismo che fa tanto bene alla salute sta diventando sempre più rischioso per la salute.
Un ciclista che muore d’incidente stradale è una notizia piccola, e come tale non finisce sul palco della grande informazione. Ma basta leggere quotidianamente i giornali locali per contemplare il raggelante stillicidio di disgrazie: per fortuna, spesso tutto si risolve con qualche giorno in rianimazione e qualche mese di rieducazione, ma è chiaro che quando si gioca sulla quantità - prima o poi - il morto ci scappa. Regolare. Sempre più regolare.
Nel mio piccolo, è da anni che provo inutilmente a sollevare l’allarme. Più che altro, ponendo questa domanda: come fa il ciclismo a preoccuparsi di tanti problemi, quando strutturalmente rischia di franare per stridenti questioni di sicurezza? Come fa, sempre il ciclismo, a progettare il suo futuro, se a questo futuro rischia seriamente di presentarsi senza praticanti? Proprio così, senza praticanti. Chi mi trova particolarmente catastrofico provi a presentarsi davanti a una madre qualunque con questa simpatica domanda: signora, perché non manda il suo bambino di dieci o dodici anni a fare ciclismo sulle strade d’Italia? Se va bene, la signora reagirà brandendo la scopa in testa all’intervistatore. Se va male, gli annoderà al collo un telaio in alluminio.
Mettiamocelo in testa, il ciclismo sta vivendo una strana stagione di contraddizione: da una parte si sta sempre più rivelando lo sport fantastico che è, dall’altra si sta rivelando una disciplina estrema, ad altissimo rischio per i suoi praticanti. Altissimo quanto? Basta chiedere a un qualunque pedalatore della domenica: tra portierate improvvise, signore che escono leggiadre dallo stop, Tir che stringono contro la parete rocciosa, autonevrotici che svoltano senza freccia, è ormai rischioso al punto da rendere utili e consigliabili due righe di testamento prima di salutare quelli di casa.
Sto pensando spesso al povero Simone, in questo settembre di bellissime pedalate sulle strade d’Italia. Mi si presenta davanti ad ogni incrocio, ad ogni camion, ad ogni portiera che si apre. Lo penso come tenero e dolcissimo martire di una disciplina sempre più bella e sempre più insana, che senza conoscerci abbiamo condiviso, assieme a tanti altri che non si conoscono. A sua madre e a suo padre, che lo terranno sempre vivo nell’unico luogo dove un figlio non corre pericoli, proprio in fondo all’anima, mi sento soltanto di dire queste povere parole: Simone è morto inseguendo la sua passione. Troppi uomini campano cent’anni senza assaporarne mai una. Non so che cosa sia peggio.
Il resto dovrebbe essere solo silenzio e ricordo. Ma non sarà così. Anche stavolta, un sacco di brava gente, in giro per istituzioni e amministrazioni comunali, ci racconterà che “bisogna partire con una campagna di sensibilizzazione”, “coinvolgendo gli enti locali e i responsabili della viabilità”, “perché si arrivi a tutelare maggiormente l'uso della bicicletta”, “diffondendo la cultura del rispetto e dell’attenzione tra gli autisti dei veicoli”, “creando nel contempo percorsi protetti e piste ciclabili”... Sono gli stessi che dopo aver commemorato e sensibilizzato, auspicato e valutato, corrono nell’altra stanza per firmare lucrosi progetti di nuovi ipermercati, di nuovi capannoni, di nuovi svincoli e di nuovo caos. Buffoni.
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