Scripta manent

Merckx e il professor Adorni

di Gian Paolo Porreca

Èbello sì, parlare ancora del mio sodalizio con Ed­dy Merckx, un rapporto unico, e non solo perché durato un solo anno di corse assieme, quel ma­gnifico, per tutti e due, 1968.
È bello sì, pensare che quando ci incontriamo ai raduni o ai revival, lui mi chiama ancora “il professore”, e chissà, forse, a scriverlo userebbe la iniziale maiuscola...
È un segno di riconoscenza, per quanto posso io aver contribuito a renderlo più “Merckx” an­cora, che mi onora ancora.
Sai, la storia fu quella di un in­contro magico, a fine ’67, io che uscivo dalla Salamini, che chiudeva, e Vincenzo Giacotto, quel manager illuminato che con i belgi già ci aveva lavorato, con la Car­pa­no ricordi?, che voleva portare quel Merckx stravincente in quell’anno, laureatosi campione del mondo ad Heerlen, a correre per una squadra italiana.
E così, sotto l’egida di uno sponsor staordinario del ciclismo, il commendator Valente, nacque la mitica Faema del ’68: il patto, metà italiani, metà bel­gi. E fu una Faema che non fece certo rimpiangere le sue apparizioni precedenti nel ciclismo, nonostante in passato avesse già visto correre con i suoi colori bianco e rossi il Gaul del Giro ’56 e il Van Looy dei primi anni ’60.
Bella scommessa, due schieramenti e due capitani, io con Ca­sa­lini e Armani, Merckx, con Vandenbossche e Van Schil, tanto per fare un paio di nomi di guardiaspalle speciali.

Cominciammo a conoscerci ad inizio stagione, nel ritiro di Reg­gio Calabria, e sai, all’inizio, lo­ro strettamente fiamminghi, noi italiani che il fiammingo è lingua ostrogota per tutti, ci fu un problemino di comunicazione, che poi tan­to banale, quando ti aspetta una stagione intera da programmare, non è. E così fa­cemmo subito un bel patto fra gentiluomini: «qui si parla in francese», che poi era la lingua obbligata del ciclismo di quel periodo!
Fu il modo più positivo per co­minciare a tessere al meglio una vita da camerati, in parità di ruoli, anche per limitare un po’ quella soggezione che poteva incutere un gruppo stra­nie­ro arroccato intorno al suo leader, che però era pure il campione del mondo in carica... Così, fu più facile per tutti fare amicizia. E per me e Merckx ancora di più.
Sai, mi trovai con lui, più giovane di me di otto anni, a fargli davvero da maestro, anche se lui mi avrebbe promosso un giorno a “professore”, e decidemmo, d’ac­cordo con il direttore sportivo Marino Vigna, di dividere sempre la camera insieme: eravamo i due feldmarescialli, o no?

Vedi, il concetto di fondo sul quale io dovetti intervenire era l’atteggiamento sempre bellicoso in competizione di Eddy. Per lui, davvero il ciclismo era esclusivamente in testa, come nel film che gli dedicò Santonì, non esisteva altro che l’attacco. Per lui, ogni corsa era una corsa in linea, da buon fiammingo. La prudenza non gli apparteneva ancora, anche per l’età certo, lui che non aveva neppure 23 anni e che si era sposato da poco con Clau­di­ne.
E fondamentalmente, anche se aveva corso nella Peugeot il Gi­ro dell’anno prima, non era an­cora tarato, diciamo, sul modo di gestire una corsa a tappe.
Così, già ad inizio di stagione, al Giro di Sardegna, gli ribadii il concetto: «tu vuoi vincere finalmente una gara a tappe? Eb­be­ne, calibra le tue forze con saggezza, perché un incidente, una malattia, una imprudenza, un ec­cesso alimentare ti può mandare alla malora tutto...».
Lui se ne stava al mio fianco, quasi chiedendomi con lo sguardo quando sarebbe stato il tem­po giusto per l’attacco ad hoc, lui che in fuga ci sarebbe ap­pun­to andato sempre, e in quel Giro di Sardegna il momento buono sarebbe arrivato in una giorna­ta da lupi, proprio da Fiandre, nella frazione che arrivava a Nuoro, piena di asperità.
E lui andò a prendersi, quel giorno, alla grande, la tappa e la maglia. Prima corsa a tappe, per Eddy.
E fra l’altro, per la Faema, fu un en plein, con Armani secondo e io terzo.

Il Giro del ’68, poi, fu una apoteosi, si sa. Ma anche allora, a rivederlo, il mio ruolo fu quello di aiutarlo profondamente, lui che era il più forte di noi due, e che andava aiutato, lo avevo ca­pito, a non sbagliare. Avrebbe voluto vincere sempre, si impegnava in ogni sprint, lui contro Basso, Sels, e quasi quasi era un testa a testa anche con Guido Rey­brouck che era compagno di squadra: certe volte, partiva per tirargli la volata, ma non si faceva da parte se non dopo il traguardo... Mi ricordo di come gli spiegavo, pazientemente, che il Giro lo si sarebbe vinto sulle Do­lo­miti finali, non prima, che gli spagnoli poteva pure lasciarli sfogare... Con una squadra, poi, forte come la nostra, in quel Giro.
Con Casalini, “un fante sul Mon­te Grappa”, lo rammentate il titolo di Raschi?, che anticipò di due giorni l’impresa di Merckx alle Tre Cime di Lavaredo. Cre­do, ed Eddy lo conferma sempre, che quella sia stata la sua giornata più fulgida, di un vigore atletico e di un valore tecnico senza eguali.
C’era una fuga davanti di una dozzina di uomini, mica modesti, poi, con Bitossi, Galera, due nostri, Armani e Casalini ancora, Vanneste, un belga tosto, Giancarlo Polidori, con dieci minuti di vantaggio. Ed Eddy che mi chiedeva scalpitante “ma quando li prendiamo questi?”, ed io che ad un certo punto, ad Auronzo, dissi a Vandenbossche di andare in testa al gruppo a menare... E il plotone che co­min­ciò a sgretolarsi, con Gi­mon­di e Dancelli, la maglia ro­sa, in difficoltà senza speranze di recupero, Tre Croci di La­va­redo... Ed Eddy che se ne va, ad un mio cenno, se ne va più deciso, e l’avremmo rivisto tutti al traguardo...
E io anche, al Lago di Mi­su­rina, che davvero ero in difficoltà, e recuperai un po’ sull’ascesa finale, con il mio passo...
Con Polidori, l’ultimo dei fuggitivi, ripreso a due chilometri dall’arrivo.

Fu una cavalcata, fatemelo dire a me che amo come parmense la musica di Verdi, da Wagner.
Conquistando la maglia rosa per distacco. E di fatto mettendo quel giorno, il 1 giugno 1968, l’ipoteca finale sul suo primo Giro d’Italia. Do­ve avrebbe guadagnato pure la classifica a punti e quella degli scalatori. Fu il Merckx più entusiasmante di tutti, a mio parere.
Giudizio, con lode, del suo “professore“. Che in quella corsa arrivò secondo.
E che avrebbe conquistato, con il plauso incondizionato del suo prediletto alunno di nome Merckx, qualche mese dopo, ad Imola, sul circuito dei Tre Monti, il titolo di Cam­pione del Mondo. Senza più bisogno di parlarsi in francese.

Così Vittorio Adorni racconta Eddy Merckx, da Chiedimi chi era Merckx, ULTRA Lit edizioni, 2013
 

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