Bisogna riconoscerlo: sembra ogni volta di ricominciare da capo. Il ciclismo ha questo problema serissimo, soprattutto nell’era moderna della grande concorrenza televisiva: per sei mesi sparisce dalla circolazione, non dà più notizie di sé, precipita nella clandestinità. Poi, richiamare l’attenzione e riconquistare la scena è sempre più complesso: la guerra tra gli sport è ormai un meccanismo spietato, che consuma e trita a grande velocità, chi c’è c’è, chi non c’è non esiste. Vallo a raccontare, che sei lo spettacolo più bello del mondo: il pubblico ha bisogno di tenerti sempre sott’occhio, di familiarizzare e di assuefarsi. Vedi il calcio, che nello sfruttare intensivamente le sue coltivazioni è maestro: guarda caso, siamo al punto che ormai non stacca praticamente più nemmeno d’estate. E le poche settimane vuote di partite, è mastro nel riempirle con le chiacchiere del mercato.
In questa stagione di grande ristrutturazione, il nuovo ciclismo del Pro Tour dovrebbe quanto meno porsi la questione. Come sopravvivere anche d’inverno? Come rompere la stagionalità? Come evitare il rompete le righe del Lombardia, sottoponendosi poi all’immane fatica di richiamare l’attenzione per la Sanremo? Siamo sinceri: qualunque sport che si spenga per quasi sei mesi si condanna inevitabilmente ad una vita difficile. Certo succede allo sci, ma quello - almeno - ha l’insormontabile esigenza della neve. Il ciclismo no: potrebbe tenere le saracinesche costantemente su. Perché non lo fa?
Ovviamente non lo fa, verrebbe naturale rispondere, perché i ciclisti hanno bisogno di riposare. Ma questa mi sembra una motivazione un po’ legata agli schemi del passato. Con l’arrivo delle “panchine lunghe”, con gli organici monstre ormai instaurati anche nel mondo della bicicletta, qualcosa di più e di meglio si potrebbe fare. Certo, non si può pensare di avere un Tour e un Giro ogni due mesi, autunno e inverno compresi. Non siamo ai Caraibi, dove il sole non va mai a dormire. Ma da qui a dire che bisogna sparire per sei mesi, mi pare ce ne corra.
Mi piacerebbe sentire che ne pensano gli strateghi dell’Uci. Quali idee possano partorire. Di certo, la famosa mondializzazione del ciclismo, che in pratica significa portarlo fuori d’Europa, una buona mano potrebbe darla. Sta già dandola. Dall’Australia alla Malesia, si stanno consolidando corse che in un futuro riusciranno magari ad allungare la stagione. Già si può pensare che prima o poi anche Cina e Africa scopriranno il gusto di competere, allargando ulteriormente l’arco delle nostre attenzioni. In fondo, basterebbe avere un grande appuntamento a tappe tra dicembre e gennaio, in qualche parte del mondo, vero e combattuto, perché giornali e televisioni non stacchino la spina così a lungo. Però riconosciamolo: in attesa di un grande Tour caraibico, con l’Armstrong del futuro che punta a vincere il settimo consecuitivo, bisogna vagare nel campo della fantascienza. In ogni caso, bisogna lavorare di fantasia.
Tutto sommato, conviene spiare anche in casa d’altri. Formula uno e motomondiale si sono inventati l’allungamento della stagione con i test delle nuove macchine e delle nuove moto. Non è granchè, ma bisogna riconoscere che richiama ormai un’attenzione invernale abbastanza consolidata. E noi, che si potrebbe fare? Di certo, non possiamo pensare di incatenare gente entusiastica davanti al video con i classici resoconti dei ritiri in Maremma o in Liguria, dove gruppi vagamente sgangherati di atleti alle prime uscite rispondono alle domande assonnate del cronista in macchina. No, ci vuole qualcosa di più vero. Di più avvincente. Corse e agonismo. La Malesia, certo. L’Australia, certo. Però con corridori veri e con percorsi seri. Ce la facciamo, a ragionare in questo modo? Non bisogna avere paura dello scandalo: anche il calcio, soltanto trent’anni fa, non avrebbe mai sognato di ritrovarsi a Ferragosto già invischiato nei preliminari di coppa o nei trofei Berlusconi. Eppure, per servire il mercato famelico, ci è arrivato. Noi potremmo almeno cominciare a ragionarci sopra. Anche perché, tutto sommato, noi negli ultimi trent’anni siamo riusciti pure nell’impresa di peggiorare. E’ il caso che ricordi la funzione delle grandi Sei Giorni? Non era un modo spiccio e genuino per tenere aperti gli ombrelloni anche d’inverno?
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