Editoriale

SOLO UN UOMO. Un anno dopo. E dopo?... Eccoci quì, a parlare di quel che non c’è più, di quello che ci è restato: in fondo al cuore, negli occhi e nella mente.
Marco Pantani un anno dopo. Sembra ieri, ma non lo è. È stato un anno importante e doloroso, per il ciclismo senza dubbio. È esploso il fenomeno Cunego, si è confermato Bettini e lo stesso ha fatto Petacchi. È cresciuto Basso, si è ripetuto, per la sesta volta consecutiva nella storia, Lance Armstrong. Lui, Marco Pantani, se ne è andato... Non «in punta di piedi» come dicono. Il fragore è stato forte, assordante, tremendo.
Di lui si sono dette e lette tante cose. Molte le abbiamo solo pensate. Tante se ne diranno e scriveranno negli anni a venire su questo ragazzo sempre a tinte forti, che non ha mai fatto cose banali, e per questo è stato come pochi altri amato e inviso.
Crediamo però che a questo punto - un anno dopo - sia arrivato il momento di deporre le armi del rancore, lasciando perdere le piccole rivincite e le troppe meschinità. Parliamo di Marco, raccontandolo senza farlo passare né per demone né tantomeno per santo. Raccontiamo il Marco Pantani corridore, quel delizioso, unico e squisito esemplare di ciclista che ha saputo incatenare i cuori del mondo intero, anche di chi la bicicletta la conosceva appena.
In questo anno sono usciti libri sul campione di Cesenatico e altri ne usciranno in questi giorni («Pantani, un eroe tragico», scritto a sei mani per Mondadori da Pier Bergonzi, Davide Cassani e Ivan Zazzaroni, ndr), in particolare ha raccontato «il suo Pantani» Manuela Ronchi, la manager amica e confidente del Pirata, che con l’aiuto di Gianfranco Josti ha scritto un libro sugli ultimi cinque tormentati anni del più grande scalatore di tutti i tempi.
Un libro amaro, difficile da metabolizzare, perché carico di verità nascoste e scomode storie di vita, ma anche di tanti, troppi rancori (mamma Tonina dice: «Il ciclismo ci ha abbandonati», ma se si semina rancore e rabbia che considerazione si può pretendere di avere in cambio?).
Un libro carico di piccoli grandi sassolini che la Ronchi si è voluta prontamente togliere dalle scarpe. Un libro che racconta il Pantani più tormentato, il più triste e vinto. Un libro dal quale escono un po’ tutti con le ossa rotte. Meno la Ronchi. Meno Pantani.
Forse la Ronchi ha ragione, tutti ci portiamo dietro e dentro le nostre colpe. Ecco perché sarebbe stato più giusto fare anche un po’ di autocritica, che nel libro è componente assente. Manuela - che innegabilmente ha trascorso cinque anni d’inferno, difficili e tumultuosi a fianco del campione più amato degli ultimi anni - forse qualcosa ha sbagliato anche lei. Sarebbe giusto, oggi, un anno dopo, riconoscerlo. Invece il «leit-motiv» è sempre lo stesso: la colpa è soltanto degli altri. Dei falsi amici, di un ambiente ambiguo e insensibile, della magistratura, dei giornalisti, di una politica federale che qualche colpa probabilmente ha avuto ma andrebbe spiegato. E dire che anche Marco ci ha messo del suo? Dire che era ingestibile è un sacrilegio?
È vero, Marco ha dovuto subire cose inenarrabili, ma lo ricordiamo ancora una volta, fino alla noia: le autorità giudiziarie si sono scatenate e accanite in seguito alle denunce mosse dal clan Pantani. Chi parlò subito di complotto, della macchinetta tarata male e del sangue manomesso? Gli avvocati della Mercatone Uno. Chi chiese un esame del Dna? Sempre le stesse persone.
Oggi sono in molti ad ammettere che qualcosa è stato sbagliato, basta leggere su questo numero l’intervista da noi fatta a Beppe Martinelli, che onestamente dice che i sì sono forse stati eccessivi, e alla fine hanno fatto solo del male a Marco. Così come la tiritera che Marco ha pagato per tutti. Non è vero. Quanti corridori in questi anni sono stati beccati con le mani nella marmellata e sono stati fermati per ematocrito alto come il Pirata? Tantissimi. Hanno accettato lo stop come incidente di percorso, Marco no, e men che meno chi gli era attorno. È stato un complotto? C’è chi ha ordito una trama oscura attorno alla figura di Pantani? Neanche la Ronchi e Josti riescono a spiegarcelo.
In questo numero pubblichiamo un ampio stralcio del libro «L’ultimo chilometro», scritto dal collega Andrea Rossini, e uscito come istant-book allegato al «Corriere di Romagna» il 5 giugno dello scorso anno. Un libro rispettoso dei protagonisti e della verità. Un libro certamente molto garbato, anch’esso doloroso. Chi si vuol fare un’idea, se la può fare. Qui ci sono tanti elementi e poca acredine perché nato dall’inchiesta giornalistica ancorata a fatti, testimonianze, scritti, documenti, sentenze, resoconti e risultanze dell’indagine giudiziaria, e che si legge come un romanzo.
Come scrive Sergio Zavoli nella sua prefazione questa è «una storia che merita riflessione, pietà e rimpianto, prime luci della giustizia».
Un anno dopo siamo qui a ricordare e a raccontare, cercando di capire, avvolti dai nostri innumerevoli interrogativi che non si sono ancora dissolti e probabilmente non si dissolveranno mai. Si poteva fare qualcosa di diverso? Chi ha sbagliato, chi ha tradito? Marco ha avuto delle responsabilità in tutta questa orribile vicenda? Tante le domande, alle quali rispondiamo con poche righe di un giudizio riportato sulla pagella di Marco quando era in seconda elementare e pubblicato a pagina 13 di «Un uomo in fuga» il libro scritto da Manuela Ronchi e Gianfranco Josti: “Situazione di partenza incerta, nonostante l’intelligenza vivace alla quale si contrappone un temperamento nervoso ed inquieto. Troppo vivace, molto aggressivo, irrimediabilmente negligente e disordinato. Nella vita coi compagni vuole essere sempre all’avanguardia e non ammette la sconfitta. A casa non fa quasi niente, ma a scuola si interessa a tutto ed è pronto alla conversazione su qualunque argomento. Scarso in lingua per la scrittura e l’ortografia troppo trascurate; buone le idee e personali. In aritmetica si arrangia. Però migliora. Pronto nella drammatizzazione”.
Poche righe scritte da una maestra elementare tanto tempo fa, che non diranno tutto ma racchiudono, forse, la verità più vera. Non quella del Pantani campione - un uomo solo al comando -, ma più semplicemente quella di un uomo. Solo un uomo: con le sue grandezze e le sue debolezze.
Pier Augusto Stagi
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