Nell’estate che vede l’Italia rigenerarsi con una fresca rivalità tra due ragazzi d’oro - Cunego e Basso -, si segnala un altro fenomeno sicuramente meno importante, ma decisamente più allarmante. Lo definirei simonismo, cioè la degenerazione post-moderna dell’antico brontolismo moseriano, movimenti culturali che comunque affondano le radici nello stesso terreno trentino.
Che cosa sia il simonismo l’abbiamo imparato tutti velocemente negli ultimi tre mesi, grazie all’indefessa opera di divulgazione del caposcuola Gilberto. Strano personaggio, questo Gibo. Ha alle spalle una lunga storia di sofferenze e una stupenda storia di riscatto, di rivincita, di emancipazione.
Con enormi fatiche e grandi prove di orgoglio, un giorno lo sfortunato ragazzo di montagna riesce finalmente a ottenere risarcimento, diventando meritatamente campione. Avrebbe tutto, lui e pure la sua storia, per catturare l’affetto della gente, soprattutto quella semplice e vera del ciclismo, che ancora preferisce le parabole di vita vissuta alle vanità dei saltimbanchi patinati.
Avrebbe tutto per farsi voler bene, Simoni. Ma stranamente fa di tutto per respingere gli assalti del cuore. Nel 2004 il suo capolavoro. Al Giro d’Italia si ritrova tra i piedi un ragazzino che ha più talento e più condizione fisica di lui. Non è una bella scoperta, riconosciamolo onestamente: non è bello per nessuno trovarsi in casa, proprio quando si pensa d’esserne finalmente padroni, un ordine perentorio di sfratto. Però Simoni avrebbe l’età per capire come comunque il fatto nuovo potrebbe giocargli ancora a favore, ritagliandogli un’onestissima parte da chioccia nei confronti di un cucciolo che tra l’altro non fa nulla per mortificarlo, anzi non fa che decantarlo. Niente, il simonismo non prevede questo genere di umana saggezza. Il simonismo prevede acido. Gibo - e chi se lo scorda - saluta la consacrazione del suo delfino con uno storico e solenne “bastardo”, che ancora scuote la vallata di Bormio e il Parco nazionale dello Stelvio. A Cunego non perdona d’essere semplicemente più forte, considerandolo la causa unica della sua sconfitta. E pazienza se ancora non abbia chiarito come mai, nel corso degli attacchi che nessuno gli ha impedito, di volta in volta non sia riuscito a raggiungere Figueras (tappa di Falzes), o a staccare Cioni (tappa di Bormio), o a scavalcare Gonchar (tappa della Presolana). Questi temi non sono previsti. L’autocritica è un vocabolo non contemplato sul dizionario del simonismo.
Poi il Tour. Cioè l’occasione per dimostrare nei fatti la sua stoffa, contro i veleni di squadra e le invidie da ballatoio. Sappiamo com’è andata. Ma ancora una volta, il simonismo supera ogni più fervida fantasia. Anzichè scegliere la dignitosa - e doverosa - strada del silenzio, Gilberto riparte a modo suo: e Armstrong fa quello che vuole, e Armstrong non lo attacca nessuno, e che schifezza è mai questa corsa. Se nella vita l’obiettivo è rendersi antipatici, Simoni ha la maglia gialla.
Non resta molto da aggiungere. Ho voluto raccontare questa storia per dimostrare ancora una volta come nella vita non si perda mai allo stesso modo. Si può perdere come perdeva Bugno, maestro di cavalleria e di autoflaggelazione, e si può perdere imbracciando il più avvelenato simonismo. A Gilberto va detta solo una cosa, anche se c’è qualche dubbio che abbia voglia di ascoltarla. Questa: magari senza arrivare all’estremismo masochista di Bugno, provi ad imparare l’arte della serena sconfitta. Se non s’impara quella, c’è una conseguenza ancora peggiore: non s’impara neppure a invecchiare.
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