Gatti & Misfatti

Alla ricerca della felicità

di Cristiano Gatti

Chiudo l’anno inchiodato su una frase che mi mette il giusto di brivido: “Voglio tornare a essere felice in bici”. A pronunciarla, se dio vuole senza ipocrisie e alla larga dalle parole di circostanza, del genere sono venuto qui perché credo nel progetto, finalmente mi sento a casa, ho sempre sognato questa squadra, eccetera eccetera, un atleta che porta un cognome enorme e gravoso come la cupola di San Pietro, almeno per un tizio intenzionato a fare il ciclista di professione: Moreno Moser.

Magari Moreno non è ancora in cima alla mia personale graduatoria di tifo per i suoi ri­sul­tati, di sicuro è ai primi po­sti per profondità di pensiero. Quello che dice all’estremo della sincerità, senza girarci attorno, non è facile: voglio tornare a essere felice in bici si­gnifica ammettere che ultimamente non lo è stato. Che è andato in bici con tristezza. Scontento, amaro, perplesso. Ammissione per niente piccola.

Dirà qualche esperto, esperto in luoghi co­muni e banalità as­sortite, che Moreno paga il pe­so delle pressioni. Che non regge le attese di tutto un mondo, che quel cognome lo obbliga a certi confronti e a certi paragoni, finendo per mandarlo fuorigiri. Fuori di testa. Sinceramente, credo che qualcosa del genere possa giocarci. Ma fino a un certo pun­to. I cognomi, se pesano, han­no due facce: pesano, ma aiutano. Bisogna solo vedere se chi lo porta ne fa una malattia, nel bene e nel male. Se cioè si fa schiacciare dal prestigio e dalla fama di quel co­gnome, oppure se al contrario lo vuole sfruttare al modo dei figli di papà, succhiando meriti e privilegi che proprio non gli spettano.

La verità è che i cognomi sono come la suocera: non si scelgono, ce li ritroviamo addosso e non pos­siamo cambiarli. Ma dopo, quando si imbocca la strada della vita, tutto è scelta. Se Mo­reno ha scelto la bicicletta, sapeva da subito di portarsi sul canotto l’ombra di un mi­to. Ma non per questo deve farsene un problema. Difatti, a occhio e croce, non mi pare proprio che se ne sia mai fat­to. Anzi, ha sempre mostrato un signor carattere e una bel­la personalità.

E allora cos’è che ha reso triste il ciclismo di questo talento? Perché si ritrova alla Nippo Fantini con la segreta speranza di ri­tro­vare la felicità? Ogget­ti­va­men­te, penso che Moreno sia vittima del suo talento personale. Niente a che vedere con la famiglia. È partito benissimo, ha vinto tanto, diciamo pure un Moscon ante literram, poi si è ritrovato a sbagliare percorso. In senso buo­no. Nel senso che lui per pri­mo ha sognato e preteso da se stesso più di quanto le sue gambe e la sua testa gli permettessero.

Ma deve stare tranquillo, il filosofo Mo­reno. Non è il pri­mo. Quanti di noi, in certi momenti della vita, o per tutta una vita, perdono la felicità di ciò che fanno perché aspettano solo il di più e il di meglio. Quante volte si sprecano giorni e anni fantasticando sui grandi risultati che sentiamo di poter ottenere, buttando letteralmente via giorni e anni giudicati inutili. Peccato che il piccolo segreto sia proprio sfruttare quei giorni di basso profilo, tutti i santi giorni di fatica e di batoste, per arrivare ai giorni da sogno. Non ci sono scorciatoie. Meglio: nel ciclismo ce ne sono tante, in quanti le hanno imboccate, finendo pe­rò maledetti e squalificati. Non una gran bella vita. Di sicuro, non felice.

Moreno volta pagina, in qualche modo ri­comincia da capo. È una storia modello, una storia emblematica. Se sia so­lo il modo di scantonare di fronte alle vere difficoltà, raggomitolandosi nel comodo bozzolo dell’ambiente piccolo e familiare, oppure se sia l’occasione per rimettersi duramente in gioco e resettare al­cu­ni errori, tutto questo lo si capirà molto presto. Di sicuro, Moreno merita di centrare proprio il suo primo obiettivo, la felicità della bicicletta, la felicità in quel che fa. Prima ancora delle grandi vittorie. Se la merita, questa smorfiosa e sfuggente felicità, non tanto perché è diverso dagli altri, perché porta un cognome particolare, perché è un talento con la stoffa del purosangue: se lo merita semplicemente perché, come gli uomini mi­gliori, le prova davvero tutte per andarsela a cercare.

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