Alla fine dell’ultimo Giro si è detto e ridetto che abbiamo voltato pagina. Che è cominciato il cambio di generazione. Che i Cunego e i Petacchi hanno già ereditato i tifosi di Pantani e di Cipollini. Che in qualche modo il passato è passato e il futuro è cominciato. Tutto vero. Ma questa pagina che voltiamo si porta dietro anche un altro cambiamento radicale, qualcosa al di sopra del puro fatto sportivo: diciamo pure una svolta di estetica e di costume.
Per capire il senso bisogna ripensare un attimo il decennio che ci siamo messi alle spalle. Perfettamente in linea con i modelli della vita nazionale, ci siamo gustati il festival dell’effimero, dell’immagine, della scenografia. Sudditi obbedienti dell’estetica televisiva, abbiamo cercato, trovato, idolatrato miti e simboli a tinte forti, sopra le righe, quasi kitch. Più del campione, abbiamo preteso e ammirato il cosiddetto personaggio. Dire che cosa sia, non è facile. Molto più facile identificarlo: vita esagerata, orecchini e borchie, scarpe pitonate, vestiti firmati da stilisti alternativi, macchina di grossa cilindrata, comparsate nei programmi televisivi a più larga tiratura, donne affini e consimili. Quanto al linguaggio e ai modi d’espressione, un costante gusto della rottura: contro questo e contro quello, come in un eterno Sessantotto, però riscaldato dal cachemere e scandito dal rolex.
Accanto ai leader indiscussi di questo movimento personaggista, anche le figure di secondo piano hanno tentato un patetico processo di imitazione e di omologazione. Ai raduni di partenza delle gare sono comparsi persino corridori coi capelli a macchia di leopardo. Di più: gente con la faccia da chierichetto ad un certo punto ha tentato di svoltare presentandosi ossigenata, ottenendo solo l’imbarazzante effetto di apparire più grottesco che personaggio.
Il personaggio, il personaggio, il personaggio. Bisogna trovare il personaggio. Bisogna essere personaggio. Bisogna costruire il personaggio. Certi campioni, addirittura, vivono stabilmente in quarantena perchè sono molto bravi, «ma purtroppo non saranno mai personaggi». Ma tu pensa, non hanno neppure un tatuaggio sulle natiche e portano ai piedi dei tristissimi mocassini.
E siamo ai Cunego e ai Petacchi. Come in una primavera di Praga, la strana coppia del Giro ci ha finalmente liberato da questa dittatura del fatuo. Tirandosi addosso lo sdegno e la compassione dei personaggisti, in modi diversi e con caratteri diversi, i due trionfatori del Giro sono accomunati dalla semplice linearità di una personalità acquarello, più vivace ed estroversa quella del ragazzino, più pigra ed introversa quella dell’uomo-jet, comunque assolutamente sobrie e contenute. Vogliamo spingerci oltre, fino all’estremo, usando le definizione più contundente? Ve bene, diciamola tutta, fino in fondo: Cunego e Petacchi si permettono d’essere persone normali. E chiedo scusa per la scurrilità dell’aggettivo normali.
Benvenuti ad entrambi, che il cielo li conservi a lungo. A noi minoranza sconfitta e ininfluente, che non sopportiamo i piercing all’ombelico perché non abbiamo l’anello al naso, che non passiamo le giornate davanti al grande fratello, che non ci emozioniamo per la vita spericolata dei campioni eccentrici, che non consideriamo un pregio sfasciare macchine dopo la discoteca o ballare in Costa Smeralda con Simona Ventura, a tutti quanti noi basta e avanza che il campione si esibisca sopra le righe, fuori dalla norma, al di sopra della media, soltanto nell’esercizio delle sue funzioni atletiche. Il resto avanza. Che abbia una sola fidanzata, che passi il tempo libero a casa sua, che non tenga in giardino cobra e alligatori, può forse risultare una grossa colpa e un’orrenda mutilazione per gli esaltati della telecamera, cui interessa soltanto di proporre mostri. A noi non interessa. Dirò ancora di più, assumendomi consapevolmente tutti i rischi della pesante provocazione: del loro Giro, del loro modo di essere, della loro beata normalità, ringrazio sentitamente sia Cunego che Petacchi. A nome di un’altra Italia, l’Italia che non gradisce il fumo negli occhi. A loro, ai campioni antidivi, resta una dolce consolazione. Anche se non saranno mai personaggi, possono coltivare un’ambizione superiore, benchè difficile e costosa: essere semplicemente persone serie.
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