UN PO’ DI SILENZIO. A questo punto occorre solo un po’ di silenzio. Dopo le mille opinioni, i mille opinionisti e le mille supposizioni su chi l’ha ucciso e chi l’avrebbe indotto a uccidersi, vogliamo semplicemente ricordare Marco per quello che è stato: un grande, grandissimo campione.
Non avrei mai pensato di dover piangere un amico che ieri, soltanto ieri, tanto mi ha fatto gioire, forse come nessuno mai. Cresciuto con il mito di Coppi, con la favola bella del Campionissimo, Marco aveva regalato a me, alla mia generazione e ai tanti tantissimi sportivi d’Italia e del mondo che hanno imparato a conoscerlo, la gioia di festeggiare - 33 anni dopo Felice Gimondi -, la vittoria in un Tour de France. Sono passati poco più di cinque anni, e dai Campi Elisi - dove con lui festeggiammo felici -, adesso siamo lì, dietro al feretro di quel campione che oggi va a far parte della leggenda. Che triste dover già vivere di ricordi.
Un po’ di silenzio. Occorrerebbe soltanto un po’ di silenzio, di pace, dopo tanto tumulto, dopo tanto fragore. Lui la pace l’ha cocciutamente ricercata, dopo anni di disperato fuggire, e noi oggi abbiamo il dovere di proteggerla, in suo nome. Noi, non abbiamo intenzione di speculare su questa tragedia, non abbiamo intenzione di raccontare gli ultimi giorni, le ultime ore, così come non vogliamo analizzare con pruriginoso gusto le sue parole, le sue ultime parole, scritte su nove pagine del suo documento - il passaporto -, diventato per sempre testamento. Un po’ di rispetto. Quello stesso rispetto che abbiamo cercato di portargli in questi ultimi anni, evitando di raccontare una verità lontana dal vero, evitando di scrivere bugie e preferendo il silenzio. Abbiamo solo mancato a questo impegno in due o tre circostanze, perché troppe lettere ci giungevano in redazione. Tutti ci rimproveravano di trattare poco l’argomento: dov’è finito Marco, perché non dite niente?, queste le domande ricorrenti. Non potevamo certo dire che si stava allenando, non potevamo certo dire che stava pensando ad una nuova stagione, abbiamo - penso - con assoluto rispetto spiegato più e più volte, fino all’ultimo, che il ritorno di Marco Pantani sarebbe stato difficile, per non dire impossibile.
Molti sapevano come stava Marco, troppi hanno fatto finta di non saperlo, raccontando di allenamenti e progetti agonistici. Si poteva fare qualcosa, hanno fatto tutto il possibile? Non lo so, e a questo punto non m’interessa saperlo. Mi limito solo a dire che Marco non ha retto al peso, alla vergogna di Madonna di Campiglio. La sua morte parte da lì, dall’incapacità - forse - di ammettere un solo errore. Tutti possono sbagliare e lui, da quel giorno è quello che ha sbagliato probabilmente meno di tutti. Ma ha sbagliato. Poi c’è stata una serie infinita di errori, partiti anche dall’interno del suo entourage, come scrive in maniera chiara e garbata - come sempre del resto - Cristiano Gatti, nella sua rubrica, là in fondo a sinistra, come è solito dire lui.
Marco non ha accettato di pagare le colpe in nome di tutti, o così almeno lui ha pensato fino alla fine dei suoi giorni. Questa è stata la sua ossessione, la sua angoscia, il suo tormento.
Si è letto e si leggerà di tutto, statene pur certi. Non mancheranno gli “instant book”, i libri verità di chi nemmeno ebbe il piacere e l’onore di conoscerlo, le rivelazioni di amici che spunteranno come funghi, giornali politici e scandalistici che riveleranno scoop e gossip. Prepariamoci, il peggio non si è ancora consumato.
Pantani è stato inviso ai più perché troppo ingombrante, perché troppo grande; lui ha fatto in modo che la sua assenza fosse ancora più visibile, per il resto dei nostri giorni. Ma sia ben chiara una cosa: Pantani non è vittima del doping. Non ci sarà medico in grado di convincermi. Pantani è vittima del suo carattere, del suo smisurato orgoglio, dei suoi tormenti che l’hanno assillato e condotto ad una vera e risoluta autodistruzione, percorrendo la strada buia e orrenda della droga che l'ha condotto prima alla tossicodipendenza, poi alla morte. Chiedeva giustizia, vendetta, ci ha lasciato in eredità il peso del senso di colpa.
L’eritropoietina probabilmente uccide e ucciderà, ma Pantani non è vittima dell’Epo. E chiedo a quei giornali come La Repubblica, che tanto hanno a cuore le sorti degli sportivi, e al contempo predicano la depenalizzazione delle droghe: ma da che parte state? Come si fa a separare le due cose? I pusher non sono forse gli stessi? Perché ci fa comodo scrivere che l’Epo brucia il cervello e non che la cocaina produce morte: perché?
In questo numero, dedicato in grande parte a Marco Pantani, troverete una storia fatta di immagini, la storia scritta da Marco con le sue vittorie: è così che lo vogliamo ricordare. Una sorta di collage, molto parziale, al quale ne seguirà un altro e un altro ancora, per sentircelo sempre vicino. Immagini di imprese, di vittorie che hanno fatto storia e che non potranno mai essere cancellate, nemmeno dal più sgherro dei suoi detrattori. Ma non troverete oggi o domani nessun gossip, nessun retroscena clamoroso. Almeno adesso, almeno per adesso.
«Quarto potere» film magistrale di e con Orson Welles, che parla di gloria e fama, potere, informazione e successo, ma anche di tormenti e amori infranti, si conclude con un commento: «non basta una parola per comprendere la vita di un uomo». E noi diciamo: non bastano nemmeno nove paginette di passaporto a svelare il segreto di Marco Pantani. Quel film finisce con il segreto portato nella tomba dal protagonista, e una pianosequenza su una rete di recinzione sulla quale svetta un cartello con scritto «no trespassing». Un limite invalicabile, che non è possibile oltrepassare: il limite del personale, del privato. Noi non lo oltrepasseremo.
Lo vogliamo ricordare sorridente, in maglia rosa, gialla e Mercatone Uno; sul podio di Parigi e di Milano. Lo voglio, lo vogliamo ricordare per quello che è stato: nel bene e nel male, e oggi non è più. Perché ha voluto fare fino all’ultimo di testa sua; perché era unico e irripetibile. Perché come te nessuno mai.
Pier Augusto Stagi
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