Editoriale
È l’uomo in giallo. È Miguel Indurain. C’era da immaginarselo e noi l’avevamo auspicato. Se non altro per poter raccontare un giorno ai nostri nipoti di aver visto quest’uomo eccezionale, che fa della sua eccezionale normalità la sua unicità.
Parlare di Indurain, celebrare il campione Navarro, sta diventando un esercizio sempre più difficile. Per molti, Miguel, non è un campione che incatena il cuore. A Miguel piace studiare gli avversari. Evita la fatica di temerli; teme esclusivamente di cadere in errori di valutazione, nel senso che ci tiene moltissimo a valutarsi al millimetro.
Ma all’occorrenza è anche capace di colpi d’autore, di pennellate che lasciano il segno, senza sbavature. A suo modo è un «cannibale». È un dittatore comprensivo: gli basta lasciare indietro gli avversari, ma li rispetta non li umilia. Il Miguel Indurain che ha conquistato per il quinto anno consecutivo il Tour de France, è però un Indurain diverso dai precedenti. L’uomo del cronometro si è sentito vulnerabile nella sua specialità. C’erano Rominger, Berzin, Zülle, Rijs, a contedergli il Tour nelle prove contro il tempo. Tutta gente preparata per l’occasione, capace di giocare con le stesse carte del Navarro, ma Indurain ha dimostrato di essere più acuto, più perspicace; per questo li ha messi tutti in gabbia con quella fuga, a Liegi. E così, chi rimproverava Miguel di non saper mai ricercare un attacco a soggetto, ha avuto la risposta. Ha attaccato Miguel, senza però mai mortificarli.
Ma c’è anche chi questo Tour l’ha perso. Ed è stato il Tour stesso, con i suoi organizzatori, i suoi cerimonieri, i suoi «cantori». Quanta poca sensibilità nella tappa di Cauterets, vinta da Virenque, che è costata la vita al nostro Fabio Casartelli. Non avremmo voluto vedere nulla di particolare, soltanto un po’ più di «pietas» cristiana per un ragazzo di soli 24 anni morto in corsa. Avremmo voluto non vedere quelle premiazioni, quelle sfilate di sponsors e miss. I corridori consumavano il loro dramma e Leblanc lasciava proseguire i suoi «consigli per gli acquisti».
Ci ha pensato Lance Armstrong, compagno di squadra di Fabio, a ricordare ai padroni del Tour che la vita di un uomo vale ancora qualcosa, anche quando non può più salire su un palco con la lattina della «Coca Cola» tra le mani. Ma il loro Tour l’hanno perso anche molti commentatori televisivi e della carta stampata. Lacrime, banalità e insensibilità. Trasmissioni sospese e poi riprese con servizi semplicemente raccapriccianti, con azioni di autentico sciacallaggio. Giornali che hanno invocato rispetto e denunciato l’insensibilità dei Padroni del Tour ma al tempo stesso sceglievano foto di prima pagina
a nove colonne - alcune delle quali a colori - con le immagini del corpo esanime e insanguinato di Fabio. Quanta ipocrisia, quanta infamia.
E allora mi domando: ma dov’erano tutti questi ben pensanti quando è morto nel Giro dell’86 Emilio Ravasio? Dov’erano quando la Juventus vinse quella maledetta coppa del Campioni che costò la vita a 37 tifosi bianconeri assolutamente dimenticati 12 ore dopo da Michel Platini (tipica classe francese!), che ebbe la sfacciataggine di presentarsi all’aroporto di Caselle, festante, con la coppa in testa? Nessuno, o meglio pochi (tra questi Michele Serra su l’Unità) misero in rilievo questo atto di insensibilità atroce. Nessuno accusò la Juve di esser passata come un carterpillar sui corpi privi di vita senza provare il benché minimo senso di vergogna.
È brutto parlare di queste cose, riaprire ferite, ma se oggi abili opinionisti si scatenano contro gli organizzatori del Tour non vorremmo che questo sia stato fatto solo perché non costava molto, visto e considerato che in gioco non c’erano interessi particolari (non era una nostra corsa e non andava a toccare grandi Famiglie) e in definitiva questo bell’esercizio di retorica faceva comodo a molti: faceva notizia.
Cinico, spietato? no, più semplicemente deluso e disorientato. La vita sarà sì una fantastica commedia, ma ho l’impressione che troppo spesso assuma i toni di un’atroce farsa. Per dirla con Indro Montanelli: «Gli uomini sono buoni con i morti quasi quanto son cattivi coi vivi».


Pier Augusto Stagi
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