Abbiamo iniziato, vissuto, concluso il Giro d’Italia portandoci dietro un tema supplementare e appassionante: ma il Bisteccone c’entra o non c’entra? Non dico in macchina: intendo col ciclismo. È curioso: su una simile questione, soltanto contigua alla sostanza di una grande corsa ciclistica, si è scatenato un dibattito nazionale dai risvolti curiosi. Perché mai? Credo che la risposta sia abbastanza scontata: quando in una chiesa, che vive di liturgie rigide e secolari, s’introduce un elemento di perturbazione, scatta il terrore dell’eresia.
In effetti, Galeazzi al Processo (mi rifiuto di chiamarlo Stappa la tappa) è una vera eresia. Nel senso che rompe con l’ortodossia e la tradizione. Eravamo abituati alla messa cantata del dopotappa, con tanti bei servizi precotti, con tanti ospiti che solitamente non c’entrano nulla con quanto successo durante la giornata, ma soprattutto con un conduttore ingessato che sta lì rigido e saccente per dimostrare in primo luogo quant’è bravo lui. Questa era, negli ultimi anni, la televisione dei commenti e delle polemiche, in teoria la televisione più gustosa dopo la diretta della corsa, perché il tifoso ha voglia di discuterne come in famiglia o come all’osteria, subito, trovandosi d’accordo con tizio e mandando a quel paese caio. Purtroppo, dopo l’epopea di Zavoli, nessuno era più riuscito a imbastire qualcosa di appassionante: non il salotto drogato di superlativi del piccolo De Zan, all’epoca di Mediaset, non il triste album delle memorie di un nostalgico Claudio Ferretti.
Guarda caso, il grande elemento di novità arriva da fuori, dai luoghi più impensati, dalla soluzione più eccentrica: sì, dal Bisteccone. Arrivato al Processo nella diffidenza generale (per quel che vale, ci metto anche la mia), Galeazzi ha messo tutti a sedere con il brio, la vivacità, la naturalezza, ma soprattutto con l’alto senso di prontezza giornalistica, che nessuno era più riuscito a installare sul palco. Il segreto? Prima di tutto, la sua bravura: si può ridere e scherzare sull’inflessione all’amatriciana e sull’appetito da bufalo, ma Bisteccone è giornalista nel senso più totale del termine. Ha fiuto delle notizie più curiose, ha senso del ritmo, non conosce la noia. Blocca i logorroici, pone domande impertinenti e screanzate, rispetta tutti e nessuno allo stesso modo.
Ma oltre alle doti naturali e al bagaglio professionale, Bisteccone ha sfondato grazie ad un’altra piccola arma - magari non appariscente, ma letale - che nell’ambiente nessuno può purtroppo permettersi: il candore dell’estraneità. Cioè: gliene importa poco delle conseguenze. Per essere ancora più chiari: Davidino De Zan, tanto per fare un nome già fatto, non potrà mai permettersi di fare una domanda vera a Cipollini, perché di Cipollini è prima di tutto amico e confidente. E lo stesso Ferretti, per ripetere nomi già fatti, non potrà che chiamare al suo fianco settantenni e ottantenni, perché gli ospiti giovinastri e magari provocatori gli stanno pesantemente sulle scatole.
Bisteccone no, Bisteccone se ne impippa. Chiede quello che un’anima candida e disinteressata chiede, ponendo alla fine le stesse domande che si pongono tutti gli altri candidi e disinteressati del Giro: i telespettatori. La domanda, adesso, è un’altra: ce lo lasceranno? Oppure, visto che funziona, provvederanno subito ad abolirlo? E subito dopo, la domanda successiva: se mai ce lo lasceranno, riuscirà a mantenere questo candore anche in futuro, quando le conoscenze si faranno più stringenti e gli assedi degli amici degli amici si faranno ossessivi? Con questi dubbi, per il momento archiviamo il Bisteccone tra i bei ricordi di un Giro bellissimo. All’anno prossimo, caro ciccione.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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