Editoriale
E adesso, per cortesia, un po’ di silenzio. Dopo tante parole e mille denunce fatte di illazioni e sigle, vediamo di lavorare per un ciclismo e uno sport pulito con qualcosa di più concreto. In questo ultimo mese si è fatto un gran parlare di dossier dimenticati nei cassetti del palazzo Coni, di medici disposti a rivelare tutto e niente, di corridori pronti a mettersi a disposizione dei controlli, ma l’impressione è che quando si cerca di mettere ordine laddove non ce n’è, c’è subito chi è prontissimo a sollevare ulteriore confusione per rendere tutto più incomprensibile. Ed eccoci quindi a vivere increduli all’ennesima rappresentazione grottesca e volgare di una commedia dell’assurdo tanto cara a Jonesco ma un po’ meno a chi ha voglia di vivere e raccontare uno sport più credibile. Eccoci quindi di fronte agli ennesimi bracconieri travestiti da guardacaccia.
Pescante indignato che mette di mezzo il Governo anziché spiegare per quale ragione quei dossier sono rimasti per tanto tempo nei cassetti della segreteria del Coni. La «Gazzetta dello Sport» che fa propria la battaglia al doping (partita in ogni caso dopo che la Federciclismo, la prima in assoluto, aveva deciso di attuare dal ’97 i controlli del sangue) ma si limita a circoscriverla al ciclismo. Medici travestiti da santerellini pronti a fare solo i loro nomi, ma non quelli che contano. E i corridori dopo aver alimentato per anni il sospetto s’indignano per la ferocia delle inchieste: ma chi è causa del suo mal pianga se stesso. E poi questo balletto fatto di percentuali di ematocrito e di emoglobina. Serve o non serve il prelievo del sangue? Si può rintracciare l’Epo nelle urine? Sì no boh forse si può ma non si è sicuri.
Non illudiamoci. Se i corridori hanno deciso di sottoporsi ai controlli del sangue è perché chi è vicino a loro ha già trovato altre strade da percorrere che conducono all’inganno, all’illegalità. Penso male? E per quale ragione non dovrei? Il fatto è che se i Giochi di Atlanta si sono conclusi dopo duemila controlli antidoping, annunciati a sorpresa, con appena due riscontri di positività, una triplista bulgara e una ostacolista russa, è legittimo non avere fiducia nei meccanismi della difesa. Soltanto l’esame del sangue può forse permettere di accertare la regolarità o meno della quantità dei globuli rossi, cioè dei vagoncini che portano l’ossigeno per il corpo, lavando i muscoli dalle scorie della fatica, ma sono in molti a sostenere che questo sistema avrebbe bisogno di tanti casi di prelievi di sangue per mettere a punto un controllo peraltro neanche sicuro al cento per cento. Il tutto quando ogni anno la ricerca «verso» il doping procede spedita, e quella della difesa avanza a scartamento ridotto: è del gennaio 1996, con atto di nascita a Sydney, Australia, che ospiterà l’Olimpiade del 2000, l’avvento dell’Igf1, miscela a base di ormoni e insulina, che garantisce l’arricchimento del sangue, l’ingrandimento della massa muscolare e del cuore (che così pompa meglio il nuovo denso liquido rosso) e, naturalmente l’impossibilità di controllo. E poi ci sono le camere ipobariche. E chissà quanti altri mille sotterfugi ancora.
Ma lo sapete che anche ai Giochi paraolimpici, cioé per handicappati, si sono verificati casi di pratica doping mutuati dal mondo degli atleti cosiddetti «normali»? Cosa dovremmo dire del paraplegico che approfitta dell’insensibilità del suo corpo al dolore nelle parti basse, per aumentarne la pressione del sangue, e di conseguenza la pressione atletica (anche di un 15 per cento), ponendo speroni appuntiti sul fondo della carrozzella?La pratica si chiama boosting: una sorta di esplosione, di sconvolgimento.
Ma è anche giusto ricordare che il doping non è figlio dello sport moderno, ma dell’uomo. Quando si parla di maratoneti non ci si può dimenticare di Dorando Petri, emiliano di Mondrio di Correggio, che consuma il suo dramma alle Olimpiadi di Londra del 1908. Il «camminatore folle» concluse la sua prova sorretto da un ufficiale di gara perché annientato dalla stricnina. E chi si rifugia nella retorica di un ciclismo antico, dovrebbe ricordarsi che i vari Merckx (positivo tre volte!), Guimard, Agostinho, Karstens, Gimondi, Zoetemelk, Pollentier, Battaglin, Gutierez, Van der Poel rimasero tutti, più o meno chiaramente, impigliati nelle maglie della rete del doping. Come non ricordarsi della caffeina di Coppi, delle anfetamine di Rivière, dei dinieghi di Anquetil, degli anabolizzanti di Zoetemelk? Il doping è sempre esistito ma mai è stato realmente combattuto, qui sta il punto.
Oggi tutto è business, e gli interessi vanno più in direzione dell’illecito che del lecito: vediamo di capovolgere gli interessi. I medici, i grandi cervelli sono allettati dal business fornito dal mercato? bene!, cioé male, ma che si crei allora un business alternativo per combattere questa piaga. Come? Come fanno le Fondazioni per la ricerca sul cancro o sulla leucemia. Un «Teledop», un Telethon una maratona televisiva, promossa dal Coni, dal Cio, dal Governo da chi volete voi, ma che abbia come finalità quella di recuperare fondi per combattere una vera battaglia che altrimenti sarebbe persa. Occorrono uomini e risorse e per far questo è necessario rendere più appetibile il piatto della «difesa» anziché quello fraudolento del doping. Non si può pensare di affrontare una guerra nucleare armati di moschetti ’91.
Basta quindi con l’ipocrisia, con le parole gonfie di retorica. Basta con i medici compiacenti. Basta con le società che contano le vittorie e non si preoccupano di come sono state conseguite. Basta con i corridori che fino all’altro ieri hanno negato tutto il negabile e adesso gridano come se avessero ragione. Basta con la politica del sospetto e dell’infamia. Basta con quelli che si dicono disposti a fare i nomi e poi si limitano a fornire le iniziali. Basta con i bracconieri travestiti da guardacaccia.
Pier Augusto Stagi
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