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L'ORA DEL PASTO. CICLISMO SI', MA ALLA MANIERA DELLO ZIO
di Marco Pastonesi | 10/01/2025 | 08:18

Pochi al mondo conoscono il ciclismo come lui. Perché lo ha abitato da corridore, da direttore sportivo, da team manager, da presidente di lega. Perché lo ha vissuto anche come se fosse un avvocato, o un giornalista, o un pubblicitario, o un talent scout. Perché vi ha lavorato prima ancora che si parlasse di marketing e merchandising, di target e mission, di feedback e audience. Lo ha fatto per passione e per soldi. Perché ha sempre inteso il ciclismo come una professione, una professione appassionata e appassionante, ma una professione, non come un passatempo, e le squadre come aziende, non come circoli, insomma ha fatto “un lavoro che è la mia passione” ma secondo il principio che “quando ci sono famiglie da mantenere devi pensare anche a guadagnare”, anche se confida che “avrei pagato per fare questo lavoro”.
Lo Zio. Bruno Reverberi. Sessant’anni di ciclismo, sessantasette se si considera che la prima corsa da corridore la disputò a quindici anni, e adesso di anni ne ha più di ottantadue. E non per celebrarli, ma per ricordarli – premessa: “Per le soddisfazioni che mi ha dato lo sport, sono contentissimo di quanto ho realizzato”; precisazione: “Ho fatto anche le mi stupidaggini, ma ci sta: per non ripeterle, bisognerebbe vivere due volte, forse tre” – ha scritto “I miei primi 80 anni” (Kriss, 224 pagine, 15 euro, prefazione di Davide Cassani), con il magistrale aiuto di Angelo Costa. Il risultato è un libro scritto in prima persona, in cui lo Zio dice, dichiara, rivela, spiega la sua vita e il suo ciclismo con le sue parole, i suoi toni, i suoi volumi.
La nascita: a Bibbiano, provincia di Reggio Emilia, capitale del Parmigiano Reggiano, inteso come il Grana. L’infanzia: “La parola miseria è un eufemismo: in realtà non c’era niente”, “Di sera si andava nelle stalle”, “Per vivere, ci si arrangiava”. La scuola: “Finite le elementari”. Il lavoro: garzone, meccanico, a 19 anni decise di aprire un’officina per conto suo. Lo sport: prima il calcio, poi l’atletica, il salto in lungo, quindi il ciclismo. La bici: la prima, una Torpado con il cambio a bacchetta, modificata con un cambio a rotella, un Simplex a cinque rapporti. Le corse: le prime senza tesserino, poi con la Coop Manfredi e la Bagnolese Vittadello. Le vittorie: la prima, a Nonantola, su un circuito, fuga a due, all’inizio saltando qualche cambio, poi sentendosi meglio e facendo la sua parte, volata senza storie, il rimprovero del direttore sportivo convinto che avesse fatto il furbo, lui che replicò già alla sua maniera: “Se fossi uno che aveva vinto già venti corse questa l’avrei lasciata: ma era la prima!”.
Poi la carriera da tecnico: dal 1964 a oggi, domani, chissà quando, affiancato dal figlio Roberto, guida di una squadra Professional e perdipiù con la stragrande maggioranza di corridori italiani. Le squadre Termolan, Santini, Selca, Italbonifica, Navigare, Scrigno, Panaria, Csf Inox Group, Colnago, Bardiani… Le bici: Alan, Conti, Moser, Viner, Battaglin, Colnago, Cipollini, De Rosa… E i corridori: da Caroli a Moro, da Allocchio a Zanini, da Cassani a Petacchi, da Pagnin a Fontanelli, da Podenzana a Guerini, da Mazzanti a Perez Cuapio, da Guidi a Casagrande, da Colbrelli a Belletti, da Battaglin a Modolo, da Pirazzi a Pozzovivo, da Frapporti a Canola, da Pasqualon a Coledan, da Ciccone a Maestri, da Zana a Pellizzari…
Lo Zio racconta i momenti di gloria e le giornate nere, seleziona le corse conquistate e quelle perdute, le regole e le proteste, anche alcuni episodi di doping. Racconta quando licenziò l’olandese Renè Koppert perché aveva preso l’ammiraglia senza chiedere il permesso, lo aspettò fino alle 23 davanti all’albergo per togliersi la soddisfazione di annunciargli che “domattina fai le valigie e vai a casa”, e quello si mise a piangere. Racconta anche di Marco Pantani al Giro d’Italia del 2000, quando lo Zio giurò “se vince lui, straccio la tessera e non mi vedi più alle corse”, quando gli profetizzò “è già tanto se finisci in crescita, poi vai al Tour: là potrai dire la tua”, quando alla tappa di San Pellegrino in Alpe gli anticipò che avrebbe preso fra i sette e gli otto minuti e fu sette e venti. Racconta anche di Madonna di Campiglio nel 1999, quando al patron del Giro, Carmine Castellano, disse: “Io non l’avrei messo fuori: è il numero uno della corsa, mancano due tappe alla fine e sapete bene che tutti fanno uso di certe sostanze perché non si trovano”. Senza paura di trasgredire i regolamenti.
Non sarà un santo, lo Zio, e lui stesso confessa di avere un carattere “bello tosto e non facile”. Si arrabbia facilmente, ma non se la lega al dito. Vuole avere sempre ragione, ma anche se a fatica ammette quando ha torto. Sa essere, forse involontariamente, perfino autoironico (o no?), come quando a quella santa (Giuliana) di sua moglie ripete che, avendo lui sempre ragione, è inutile perdere tempo in discussioni. E quel suo modo di esprimersi: “Vado piano di mio, se mi inviti a rallentare cosa corro a fare?” alla mamma che gli raccomandava prudenza; “Oggi si dividono i maschi dalle femmine” prima di una gara dura; “Sono due settimane che siamo al Giro e ancora non si è sentito il tuo nome: buttati almeno in terra, così la radio dirà che sei caduto e ti sentiremo nominare” al suo colombiano Felipe Laverde.
Il ciclismo di oggi è di un altro pianeta. Neppure nell’ultima frase del libro lo Zio si nasconde: “Se ci sarà ancora ciclismo, quale sarà?”. Sarà un ciclismo, prima o poi bisognerà arrendersi all’idea, senza di lui. Un ciclismo meno Parmigiano Reggiano.

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